Molto piu' di un "amarcord"
pubblicato sul N.484-485 di "Testimonianze"
Ripensare la concentrazione di simboli e la concatenazione di eventi di un «anno di snodo» come il 1992, induce a molte riflessioni. Fu nel 1992 che Ernesto Balducci, che rifletteva sul cinquecentenario della scoperta di Colombo, concluse il suo cammino terreno. Ma quello fu anche l’anno di «Tangentopoli» e della fine della «prima Repubblica», mentre, ad un braccio di mare dalla nostra penisola, gli incerti equilibri del «dopo Tito» e del «dopo Yalta» precipitavano nella guerra la ex Jugoslavia. Una tragedia, ormai rimossa, di cui è compito dell’Europa fare memoria, evitando di lasciare a se stessi i popoli che furono travolti dalle contrapposizioni etniche e dall’«imprenditoria politica» della paura.
Perché una sezione monotematica sul 1992? Non per un semplice amarcord o per un espediente mirante a riproporre la riflessione su avvenimenti ormai lontani, agganciandosi alla misura esatta di un ventennio. E’che quell’anno fu davvero particolare. E gli eventi (spesso drammatici) che lo connotarono furono, per molti aspetti, indicativi ed emblematici. Inseriti com’erano, in più ambiti, nella dimensione particolare del trapasso da un’epoca che si chiudeva ad un’altra (assai complessa) che si apriva.
Quel 25 Aprile 1992
Per riandare ad un’esperienza, esistenziale e umana, ma anche spirituale e culturale, che tragicamente fu troncata, fu il 25 Aprile 1992 che Ernesto Balducci concluse il suo viaggio terreno. Le immagini legate a quella data, ed all’ultimo saluto che gli demmo, riaffiorano con intatta commozione. Sulla valenza di un messaggio che, a distanza di 20 anni, ancora ci raggiunge, «Testimonianze» è tornata con un volume monografico speciale.
Fu nei mesi che immediatamente precedettero la sua scomparsa che Balducci si dedicò a riflettere sulle implicazioni cui rimandava proprio l’anno 1992. Che era il cinquecentesimo anniversario di un avvenimento che ampliò gli orizzonti e cambiò i destini del mondo: la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Una «scoperta» - sottolineava Balducci - che ben presto si sarebbe tramutata in «conquista». Al senso delle vicende originate da quell’avvenimento e da un passaggio, comunque, di grande rilevanza dal punto di vista storico egli dedicò anche un piccolo libro (l’ultimo da lui pubblicato) dall’evocativo titolo: Montezuma scopre l’Europa . La tesi proposta da Montezuma (e rivisitata puntualmente da Stefano Zani) è incisiva e precisa: rimanda all’ambivalenza della modernità, che da lì si sarebbe originata e che si fondò, certamente, sull’apertura degli orizzonti del mondo, ma non sull’incontro con l’«Altro» e con le sue espressioni culturali e religiose. E’ di quell’appuntamento vanificato dalla cultura del dominio che l’ultimo re azteco, protagonista di una metaforica ed immaginaria quanto puntuale visita in Europa, verrebbe a chieder conto. Dell’ambivalenza dell’Europa e dell’Occidente - «Giano bifronte», secondo l’espressione proposta ne La Terra del tramonto - Balducci avrebbe insistentemente parlato proprio nell’ultimo periodo della sua vita e del suo impegno.
L’Europa, d’altra parte, proprio nello snodo di quel cruciale 1992, a pochissimi anni di distanza dal crollo Muro e dalla fine dell’«era di Yalta», era chiamata, su più fronti, a scelte impegnative. Lo era sul terreno della costruzione sempre più avanzata e del consolidamento di una dimensione unitaria della sua economia (evidenziata dall’approdo all’Euro) e su quello della definizione dei poteri delle istituzioni che delle conseguenze di tale scelta di fondo avrebbero dovuto farsi garanti. E’ oggetto di discussione storica e di attualissimo e stringente dibattito politico se le decisioni, ma soprattutto le resistenze e le titubanze, che hanno ispirato quel passaggio (come ricorda Marco Mayer) siano state ispirate a lungimiranza di vedute. Implicazioni, forse, ancor più importanti, avrebbero avuto le scelte che i disorientati e divisi stati europei (e, in prospettiva, l’intera comunità internazionale) sarebbero stati chiamati ad assumere di fronte agli imprevisti conflitti che negli incerti, ed evidentemente non pacificati, scenari del dopo «guerra fredda» si sarebbero dispiegati. Come nel caso della Bosnia e dell’intera ex Jugoslavia. Una «tragedia europea», oggi già dimenticata e rimossa, di cui a 20 anni di distanza, è bene tornare a fare memoria. Ma prima di riandare a quel che rappresentarono le dolorose vicende innescate dalla diffusione del veleno nazionalista in quella porzione di mondo ex che era la Jugoslavia, vale la pena di soffermarsi (come fanno Bigalli, Calleri, Monni e Sbordoni) su cosa lo scardinante passaggio del 1992 rappresentò per il nostro Paese.
A Capaci e a Via D’Amelio
A Capaci fu ucciso Giovanni Falcone; in via D’Amelio fu la volta di Salvatore Borsellino. Colpì duro, ed in modo spietato, la mafia, falciando vite di magistrati di prim’ordine (da non dimenticare anche il nome di Francesca Morvillo) e quelle degli agenti in servizio di scorta. Ho un ricordo vivo del messaggio di sgomenta solidarietà che, alla notizia della morte di Borsellino, dalle Dolomiti (dove mi trovavo per qualche giorno di vacanza), mi parve giusto inviare, facendo riferimento anche alla memoria e all’insegnamento di Ernesto Balducci. Tutto sembrava allora scricchiolare, nel nostro Paese. L’effetto del più generale cambiamento degli equilibri, che la svolta del 1989 aveva portato con sé, travolgendo l’«ordine» europeo in cui era, in qualche modo, incardinato anche il sistema politico della nostra «prima Repubblica», non poteva che provocare sconvolgimenti anche in Italia. E gli sconvolgimenti furono enormi. Della poderosa «geografia politica» pre 1992 (fatta di partiti forti e strutturati come la DC, il PCI, Il PSI e, finanche, di piccoli, ma radicati partiti come il PRI), i giovani nati dopo il Muro non solo non hanno (com’è ovvio) memoria, ma neppure la minima cognizione. Ed è interessante (provare per credere, in una lezione di storia) andare, con loro, a ricostruirne la fisionomia. Di cui, dopo la tabula rasa allora operata, non è rimasta traccia visibile. Quel che non venne trasformato dalle svolte politiche rese necessarie dalla storia (com’era stata, per il PCI, quella della «Bolognina»), fu spazzato via dal disvelamento delle brutture morali e delle ruberie di Tangentopoli ad opera dell’inchiesta giudiziaria di Mani pulite. Molti nodi parvero, davvero, venire al pettine. Mani pulite sembrò dare un’evidenza, non solo sul piano penale, ma anche su quello politico, alla dimensione enorme che avevano evidentemente assunto le storture interne al sistema dei partiti. Un sistema espressamente previsto dall’impalcatura istituzionale della democrazia repubblicana, che ne fa un riferimento imprescindibile della dimensione pubblica, eppure evidentemente esposto alle tentazioni micidiali dei meccanismi di potere e dell’ingordigia di risorse materiali funzionali al procacciamento del consenso. Su fronti, con modalità ed ispirazioni assai diverse, di tale invadenza della «partitocrazia» (termine, a lungo, ritenuto improponibile perché considerato demagogico o «di destra») avevano parlato Guglielmo Giannini (con il movimento dell’ «Uomo Qualunque») ed un politico-intellettuale, intransigente e di vaglia, come Ernesto Rossi. Erano denunce che, superato di volta in volta il clamore degli scandali (tutt’altro che assenti anche nei primi decenni del percorso repubblicano), venivano sbrigativamente etichettate come espressioni di un generico, e improduttivo, «moralismo». Di «questione morale» aveva parlato, con intensità di accenti, anche un accoratissimo Enrico Berlinguer. Che, però, era politicamente limitato dal rappresentare un partito che tardi, e non senza resistenze (nonostante lo «strappo» del 1981), stava giungendo a risolvere l’ipoteca dell’antico legame con l’URSS.
Il tarlo che corrodeva le fibre del tessuto della vita democratica era già stato, comunque, più volte individuato e chiamato per nome. Ma le proporzioni del male che con Tangentopoli furono evidenziate, e che stavano portando all’uscita di scena interi settori (fra protagonisti e comparse) della vita politica italiana, non potevano che generare disorientamento, disillusione e sconcerto. Certo, quel «passaggio» produsse anche non poche speranze di rigenerazione. Che intendevano legarsi alla prospettiva, o al miraggio, di una vera e propria «rivoluzione» (come allora, in modo più o meno appropriato, si disse) che sembrava essersi avviata e di cui la magistratura appariva la sostanziale interprete. Qualcosa, evidentemente, non è andato per il verso giusto se, dopo l’infinita transizione della «seconda Repubblica» e dopo l’interminabile confronto con l’esperienza berlusconiana, ci troviamo con più corruzione di prima, con frequenti ed incredibili forme di appropriazione del denaro pubblico e con un diffuso discredito delle classi dirigenti e della dimensione stessa della politica.
Ripensare, a venti anni di distanza, la lezione che Tangentopoli aveva impartito e che è stata, evidentemente, in non pochi ambiti, male appresa e pochissimo assimilata, è questione di stringente attualità. Tornando al 92, poco oltre i nostri confini, i contorni degli eventi di quel periodo apparivano ben più foschi. Ad un braccio di mare dalla nostra penisola (e dallo sconquasso di carattere etico-politico e giudiziario che la stava investendo), si stavano verificando eventi di inaudita violenza. Trovavano uno sbocco nel dramma (annunciato, a volerlo vedere) e in un aperto, e feroce, conflitto armato, i contrasti irrisolti e le tensioni della Jugoslavia del dopo Tito.
Lampi di memoria sulla ex Jugoslavia
Non c’è dubbio: fra la sequenza e la concatenazione di eventi che rendono così particolare, nella ricostruzione e nel ricordo, quell’anno 1992, la «guerra jugoslava» (come richiama lo stesso nostro motivo grafico di copertina) e le dolorose vicende della Bosnia assumono una rilevanza del tutto particolare. Le immagini, e lo strazio, delle città sventrate, lacerate o assediate (l’«urbicidio», verrà chiamato) assurgeranno a simbolo (e a monito) delle conseguenze di un disegno, perverso quanto lucido, di demonizzazione culturale (v. Goldkorn) e di conseguente eliminazione dell’«Altro». Un ventennio dopo, nei lampi intermittenti di una memoria offuscata dalla rimozione (v. le considerazioni di Lisa Clark sulle giovani generazioni bosniache), martella, immutata, la stessa domanda di allora. Come è potuto accadere? Come è stato possibile che, in uno spazio, certo particolare, dell’ Europa come quello balcanico, gli equilibri in via di definizione del «dopo Yalta» si siano spezzati e siano potuti precipitare nel conflitto aperto e nella guerra? Per di più, verrebbe ancora da notare, in una guerra con quel particolare, e irredimibile, dispiegarsi di violenza (v. Melita Richter) e di brutalità. Dinamiche che altrove (come nel caso della separazione della Repubblica ceca e della Slovacchia) avevano potuto essere incanalate in un percorso, magari controverso e contrastato, ma esente da violenza, lì avevano guadagnato schiere di seguaci alle ragioni dell’odio. Aveva lavorato a fondo, e con metodo, l’«imprenditoria politica» della paura, dell’uso sapiente delle pulsioni nazionalistiche (v. Ragionieri) e del richiamo alle appartenenze etnico-culturali. Che sono (come spesso là è accaduto) capaci di trasformare l’antico vicino di casa in un nemico che ti spiana contro il fucile e ti trascina nel campo di internamento.
Ogni conflitto armato è, beninteso, una sfida alla coscienza ed alla capacità di razionalizzazione degli uomini, posti di fronte alle conseguenze della pervicace assimilazione della mentalità e della «cultura di guerra» da parte dei loro simili. Sono i (troppi) passaggi della storia, come già aveva argomentato Freud, in cui Thanatos (l’istinto di morte) prende il sopravvento sulla benevolenza di Eros.
Come che sia, ad «interpretare» ed a saperci relazionare con la drammatica realtà di quel conflitto non eravamo preparati. Delle laceranti discussioni di allora vi è un’eco nel carattere «plurale», e diversificato, degli interventi della nostra sezione monotematica. Rimanda alla tesi, che allora ebbe corso, del «prematuro» riconoscimento della Croazia e della Slovenia da parte della Germania e del Vaticano, Marco Mayer (in un passaggio del suo più complessivo inquadramento dell’anno 1992). Una tesi che allora tendeva, in qualche caso, ad inquadrare tale apertura di credito come espressione di un più complessivo disegno di disaggregazione della «vecchia» Jugoslavia. Ma altri interventi (Gherardini, Damiani) ricordano non solo la sproporzione delle forze in campo, ma anche il predeterminato progetto di edificazione di una «grande Serbia» che, a partire dalle posizioni elaborate dall’Accademia delle Scienze di Belgrado, avrebbero alimentato un’ambizione egemonica che fu, evidentemente, alla radice di molte delle tragedie che, nelle violenze che ne seguirono, segnarono drammaticamente le contrade di quella porzione di Europa. Molto tempo è trascorso e molta acqua è passata sotto il ponte di Mostar, che fu, con la Biblioteca distrutta di Sarajevo, una delle immagini simbolo di quel crudo precipitare degli eventi. Oggi è, forse, già possibile avviarsi ad una più complessiva interpretazione della concatenazione di responsabilità e del perverso gioco di rappresentazioni a specchio che condusse ad un esito irreversibilmente sanguinoso la trama di relazioni fra le diverse componenti etniche che la configurazione autoritaria dello Stato «socialista» era, comunque, riuscita in precedenza a tenere insieme. Ebbero, tutte, gravi responsabilità le diverse posizioni nazionaliste che, da lì in poi, presero forza nella Jugoslavia che si avviava a diventare «ex». Le ebbe il nazionalismo croato allora impersonato da Franjo Tudjman. Ma restano certo incaccellabili quelle (legate politicamente a posizioni come quelle di Milosevic, poi scomparso mentre era in attesa di giudizio presso il Tribunale internazionale dell’ Aja, di Mladic e di Karadzic) connesse alle tragedie del Kosovo o della Bosnia. Non c’è revisionismo che possa cancellare la verità storica, e la vergogna, di eccidi come quello di Srebrenica.
Un muto appello a non dimenticare e a non rimuovere la memoria delle troppe efferatezze che si sono consumate viene oggi dalla moltitudine delle sedie vuote, simbolo delle vite allora spezzate, accanto alle quali, non molto tempo addietro, sono sfilati muti i manifestanti. Furono (o fummo, come forse sarebbe più giusto dire) in molti a sentirsi impotenti (v. Siliani), di fronte a quel che stava avvenendo. In tanti corsero, come viene ricordato, a portare soccorso ed a manifestare vicinanza alle popolazioni colpite. È un patrimonio di esperienze che rimane agli atti. Ma agli atti rimane anche il defatigante dibattito sul «che fare?». Che, certo, non era precipua responsabilità dei movimenti, ma delle istituzioni della comunità internazionale. Istituzioni che rivelarono, in merito, a volerne dare un’interpretazione benevola, quanto meno una clamorosa impreparazione. Alla fine (dopo che troppe atrocità si erano consumate, come ricorda Piera Moscato), l’intervento esterno ci fu. Fu compiuto sotto l’egida della Nato, con le modalità che ricordiamo (i bombardamenti dall’alto) e con lo strascico luttuoso delle morti attribuite all’uranio impoverito. Certo è, ed è un dato non da poco, che alla «pulizia etnica» ed alla guerra fu posto fine.
Drammi come quello della Bosnia, o similari
Altro discorso è dire che si è davvero costruita la pace. Sui luoghi su cui venti anni fa già soffiavano i venti di follia è sceso (Dabizzi) l’oblio e certo, come anche altri sottolineano, si è ben lontani dall’aver costruito un’accettabile convivenza. Fa uno strano effetto, ripensare criticamente quel 1992. E’ un anniversario i cui rimandi simbolici (come quello del cinquecentenario della scoperta di Colombo e della «reconquista» di Grenada) ed i cui avvenimenti, ci rapportano almeno a due questioni di fondo: quella del rapporto identità-alterità e quella (che è tema centrale, sia sul piano delle nostre problematiche interne, sia sul piano internazionale) della legalità. Da questo punto di vista va pur riconosciuto che passi avanti e tentativi importanti sono stati fatti. Basti ricordare il lavoro del Tribunale Penale Internazionale mirante a perseguire (per quanto possibile) almeno alcuni dei principali responsabili dei crimini in Bosnia e nella ex Jugoslavia. Un lavoro al quale un contributo di primaria importanza è stato dato da un grande giurista, innamorato dei diritti umani (e della cultura della convivenza), come Antonio Cassese. È questa, anche, un’occasione per onorarne la memoria. Va anche detto, però, che, affinché drammi come quelli della Bosnia, o similari (scriviamo avendo in mente quel che, in termini certo diversi, si va consumando in Siria), non tendano ulteriormente a ripetersi negli anni, moltissimo c’è ancora da fare. L’ispirazione (di balducciana memoria) di quel «pacifismo istituzionale», capace di tutelare la convivenza, difendere i diritti umani fondamentali e mettere a punto gli strumenti per contrastare la sopraffazione violenta di minoranze, comunità e popoli minacciati, è un nobile ed importante riferimento. Ed è anche, politicamente, un programma di lavoro. Che, in questi avanzati anni duemila, è però ancora lontano dall’essere attuato. Come è lontana dall’essere affrontata seriamente la riforma dell’ONU, tante volte auspicata ed inutilmente invocata. Grandi questioni, che rimangono sullo sfondo e che, oggi meno che mai, devono essere consegnate all’oblio. C’è, però, intanto, da prendere in considerazione un obiettivo politico, culturale ed umano che ha la forza impegnativa di un banco di prova. È quello che spetta all’Europa. Che è tenuta a non lasciare a se stessi popoli come quelli dei Balcani, che, a partire da venti anni fa e per un lungo periodo, furono lacerati dalle contrapposizioni etnico-culturali e dalle devastazioni della guerra ed ai quali va garantita la piena opportunità di ritrovarsi in una più grande «casa comune», organicamente partecipe della costruzione di un assetto planetario fondato sul dialogo fra le culture e sull’universalità dei diritti.
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