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Un capitolo della lotta per la liberta'
"Testimonianze" n.497

I bellissimi versi di Dante

Una delle aspirazioni fondamentali dell’uomo è quella che riguarda la libertà. Non c’è bene più grande, come generalmente si conviene; «(…) libertà (….) ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta», come recitano i bellissimi versi di Dante nel primo canto del Purgatorio. Eppure non c’è dramma più grande del fraintendimento del senso e dell’uso della libertà. È opinabile, naturalmente, quel che spontaneamente mi viene da affermare. E, se sbaglio, mi auguro sinceramente di essere contraddetto. Eppure, chi scrive ne è convinto: che qui stia, alfine, il nocciolo di quanto, con ottiche diversificate e con una pluralità di punti di vista, viene esposto nei testi degli amici che hanno contribuito a questa sezione monotematica dedicata al Tunnel delle dipendenze. Svariati sono gli argomenti e i temi che vengono trattati: dal «poliuso» delle sostanze stupefacenti (Finessi) alle «culture dell’alcool» (Perticone, Fagni) alla ludopatia (Brogi) alla questione del rapporto fra dipendenze e illegalità diffusa (Bigalli) al tema della dipendenza dal gioco in dimensioni fragili della vita come la «terza età» (Mosi) alla pericolosa ingenuità delle generazioni giovanili che contraggono comportamenti devianti sulla base del fallace convincimento che comunque «smetto quando voglio» (classi 5ªB e 5ªC del Liceo scientifico «Leonardo da Vinci», coordinate da Stefano Zani). Al fondo vi è comunque una questione che, forse, non è male affrontare di petto, a costo di rischiare qualche incomprensione. Perché sfrondata da qualunque anacronistico e reazionario rimpianto dei tempi che furono (è sempre insensato sostenere che «si stava meglio quando si stava peggio») e da ogni, controproducente, istanza moralistica, non mi pare azzardato, o inappropriato, affermare che i drammi e le patologie di cui qui stiamo a parlare non sono che i colossali sintomi del disagio e dello sperdimento che connotano il tempo presente[1]. Un tempo in cui, forse come mai prima, ci si sente (ed anche, per tanti aspetti, si è) liberi ed in cui, contemporaneamente, pesantissimo e diffuso è il rischio di cadere nell’assoggettamento a vecchie e nuove forme di schiavitù. Due aspetti che sono, singolarmente e paradossalmente, fra loro collegati. C’è un problema, certamente e forse innanzitutto, di mentalità: a partire da quella «cultura dello sballo» che infetta componenti tutt’altro che marginali della popolazione giovanile e che solo di rado viene adeguatamente contrastata. Non è forse venuto il momento di tornare a ribadire con nettezza che assumere sostanze stupefacenti, bere troppo e perdere il controllo di se stessi, rendendosi spesso pericolosi anche per gli altri, è una pessima cosa? E che tali comportamenti, oltreché stigmatizzati, dovrebbero forse essere anche adeguatamente sanzionati?

 

Viviamo di enormi paradossi

Viviamo, d’altra parte, come in questo volume viene rilevato, in un contesto caratterizzato da paradossi enormi. Contro il gioco d’azzardo e la ludopatia (che peraltro, sia pure in forme diverse dalle attuali, sono mali antichi[2]) si spendono fiumi di parole. Eppure, le case e le sale da gioco si moltiplicano e le finanze pubbliche, sui loro proventi, continuano a lucrare. E le bevande alcoliche (rispetto alle quali, intendiamoci, sarebbe assurdo auspicare politiche proibizionistiche) vengono vendute a fiumi, speso senza adeguati controlli e all’insegna di luoghi comuni che ne sottovalutano la pericolosità sociale. Sono problemi, però, di cui viene sottovalutata la portata anche perché qualcosa di profondo è saltato o, come forse meglio sarebbe dire, è stato scardinato nelle relazioni sociali e nei rapporti intergenerazionali[3]. Non si tratta, certo, di rimpiangere realtà felicemente archiviate dal tempo e dal sacrosanto mutare dei costumi, in cui tutto si voleva gestito e regolato (spesso, peraltro, con risultati poco efficaci) in termini di autorità e di formale ossequio a convenzioni venate di ipocrisia. Ma c’è certamente qualcosa che non funziona in una società in cui non solo è archiviata da decenni la tradizionale «figura del padre» ma in cui non sembra esistere, in famiglia e non solo, una produttiva verticalità dei rapporti, fondata sulla distinzione e sul riconoscimento del valore e della diversità dei ruoli, delle competenze e delle esperienze. È quanto, in termini decisi, va da tempo affermando un autore di indubbia originalità come Massimo Recalcati[4]. Sono temi di fondo con cui, evidentemente, ha a che fare soprattutto chi, oggi, è giovane di età. Quei giovani degli anni duemila a cui, comunque, bene o male, presto dovrà essere consegnata la gestione della cosa pubblica e la tutela del bene comune[5]. Sono, certo, d’obbligo, a questo punto, due precisazioni. La prima relativa al fatto che il disagio che sta alla base della gran parte delle forme di dipendenza (dalle droghe, dall’alcool, dal gioco, da Internet, dai siti porno….) ha radici non solo nella crisi delle relazioni umane, della famiglia, delle identità personali e collettive e delle istituzioni, ma è evidentemente causato anche da robuste ragioni strutturali a livello delle condizioni e delle relazioni socio-economiche. E’ quanto fa rilevare opportunamente Affinati parlando espressamente di «generazione precaria». La seconda considerazione è riconducibile a un’evidente, e drammatica, constatazione: che a soggiacere alle dipendenze (di vario genere e tipologia) sono non solo giovani e giovanissimi. Sono persone di ogni età e di ogni condizione sociale. Si tratta di problemi presenti, in qualche misura, in ogni ambito della società. Certo, ci sono delle «tipizzazioni» che possono dare l’idea della maggiore incidenza di una determinata patologia in un certo settore della popolazione: come le casalinghe che scendono al bar sotto casa per comprare ripetutamente il Gratta e vinci, nella speranza, forse, di poter sfuggire alla noia e alle doverose, e sempre uguali, mansioni della loro vita. E che accompagnano, magari, questa loro tendenza o dipendenza con l’abitudine a consolarsi con vino di pessima qualità.

 

Un grande buco nero

Ma le «tipizzazioni» possono, naturalmente, essere molteplici: dal brillante manager che assume regolarmente coca, pensando naturalmente di non esserne dipendente, ai giovani che mescolano, con incosciente disinvoltura, superalcolici e pastiglie eccitanti, ai giocatori d’azzardo che vanno, spavaldamente, a rovinarsi la vita e a finirsi le sostanze, in risentita solitudine o galvanizzandosi nelle bravate del gruppo che attende la «grande vincita», al solitario navigatore compulsivo in Rete che, in uno spazio potenzialmente usabile per accrescere conoscenze, competenze e spirito di indagine critica, finisce per trovare solo il proprio sperdimento, rimanendone succube e ricavandone solo isolamento rispetto alla vita che, fuori dalla porta, continua a pulsare. Quel che, però, può essere constatato, generalmente, osservando certi fenomeni e determinati comportamenti patologici è che non è tanto il riferimento ad una specifica casistica che conta. Al di là della forma specifica che assume il vero e proprio spossessamento della personalità che le diverse e singole dipendenze, sostanzialmente, comportano, è il fenomeno in sé, nella sua generalità, per le sue implicazioni e per la sua portata, che colpisce. Si ha come l’immagine di una sorta di vasto buco nero che si è insediato e si allarga, nel cuore e nelle viscere della nostra società. Il problema non è allora, forse, o non è solo, quello di elaborare una strategia per combattere la singola forma di dipendenza, anche se, certo, ricostruire specifici percorsi vincenti e virtuosi (Checcucci, in Società civile) è importante. Il problema è capire, nel suo insieme e nella complessità, che cosa rappresenta questo «morbo» dalle mille, e cangianti, forme, che svuota le menti, infiacchisce i corpi e riempie di residui di sostanze allucinogene le, già non limpidissime, acque dei nostri fiumi. Se non si coglie la portata di insieme, e se non si intendono le implicazioni di fondo di tale sfida (ha ragione Pedani), la lotta è impari. Perché anche le strategie mirate (di terapeuti, comunità, associazioni di volontariato, educatori, famiglie…) abbiano successo ed efficacia, bisogna puntare al centro del problema. Che cosa cerca, cosa vuole, cosa reclama chi si droga, chi beve, chi gioca, chi passa le ore incollato alle immagini luccicanti del computer o del videogame? Usando in maniera distorta, e fraintendendo il valore di fondo, della propria libertà (e qui, eccolo, il tema dei temi: insegnare, e imparare, nuovamente a coniugare libertà e responsabilità, verso se stessi e verso gli altri), chi è all’interno di un meccanismo di dipendenza, esprime talora, in maniera distorta e autodistruttiva, una propria, paradossale, domanda di autenticità. Sia pure in modo non meccanico o deterministico, come talora si tende impropriamente a fare, va pur detto che sono la mancanza di autenticità delle relazioni umane ed il vuoto di valori del mondo contemporaneo ad essere alle origini di molti comportamenti «devianti».

 

Se manca l’autenticità

Naturalmente, non si tratta di riproporre discorsi o analisi ispirati al più trito sociologismo che annullino, relativizzino e quasi scusino le responsabilità individuali. Sarebbe quanto di più sbagliato potremmo proporre: le responsabilità individuali (in termini di immaturità, autolesionismo, egoismo…) ci sono sempre e sempre vanno considerate. Eppure, come non rilevare che è proprio la mancanza di autenticità del mondo in cui viviamo, unitamente ad un fraintendimento colossale del senso della libertà (colpevolmente disgiunta da solidarietà e senso di responsabilità) a generare l’infelicità, il disorientamento, lo spegnimento delle capacità critiche e lo sbandamento che sono spesso all’origine delle vecchie e nuove forme di dipendenza e del passaggio, non di rado, da un comportamento patologico ad un altro? C’è, d’altra parte, un problema di fondo, che si intreccia con quelli già considerati e a che ad essi si sovrappone, che non può non essere considerato in ordine a problemi inquietanti come quelli rappresentati da patologie comportamentali, atteggiamenti estremi e devianti, forme (diversificate) di dipendenza. Ne aveva parlato a suo tempo. in alcune sue tesi che molto avevano fatto discutere, James Hillman (qui ripreso da De Filippis), ponendosi, «provocatoriamente» una domanda. Perché i giovani (e non solo) amano il rischio, frequentano territori che mettono a repentaglio la loro stessa vita e sembrano quasi (con i loro comportamenti irresponsabili) corteggiare la morte o, comunque, il lato oscuro e in ombra della vita? La risposta starebbe nel fatto che sono proprio la rimozione, vitalistica e patologica, delle zone d’ombra dell’esistenza e la dimenticanza del «limite oscuro» della condizione umana da parte di un mondo teso solo ad esaltare una dimensione artificialmente luccicante e luminosa («tutta vita») a generare il bisogno, espresso talora in forme autodistruttive, di tornare in contatto con quanto viene cancellato e considerato «tabù»[6]. Il rischio di una tale tesi è evidente. Può essere anche fraintesa in senso impropriamente giustificatorio. Ma non credo che così la si debba interpretare. È naturalmente sbagliato (è l’assunto da cui siamo partiti) bere smodatamente, correre irresponsabilmente in autostrada, assumere sostanze tossiche, autodistruggersi con la pratica del gioco d’azzardo. Su questo non si discute e non si transige. Non è male però, forse, ricordare (e qui Hillman potrebbe avere qualche ragione) che la frequentazioni di tali, rischiose e micidiali, dimensioni e zone d’ombra possono, certamente, rappresentare anche l’inconsapevole (e sbagliata) reazione al modo di essere di una società autocompiaciuta, che di lati oscuri dell’esistenza e di sofferenza non vuole proprio sentir parlare. Perché è contro il bon ton ed il rassicurante ed ordinato scorrere della vita.

 

Uscire dal tunnel

È anche da tali forme di consapevolezza, di carattere antropologico ed esistenziale, che bisogna partire per vincere una battaglia che davvero richiede strategie che non siano solo di carattere «tecnico» o «medico». Naturalmente, le competenze professionali ci vogliono, eccome, ed una corretta deontologia (oltre al possesso di una buona dose di apertura mentale) sono fondamentali per aiutare tante persone ad uscire dalla schiavitù in cui sono cadute. Ma c’è bisogno soprattutto di un nuovo umanesimo e di una comprensione piena, aperta, interdisciplinare dei meccanismi e delle dinamiche del «mondo della complessità» in cui si dispiega, oggi, la nostra vicenda umana. E ci vuole, poi, molto coraggio, unito alla capacità di saper stringere e accogliere le mani che si tendono verso di te (v. la testimonianza raccolta da Sbordoni, continuazione di un racconto già iniziato in un altro numero della rivista[7], che è in pratica la storia di una rinascita). Uscire dal tunnel, dunque è possibile. Con la consapevolezza che si tratta di vicende tutt’altro che riconducibili ad una sterminata sommatoria di casi personali o ad una dimensione settoriale. I temi di cui siamo qui a parlare, e le battaglie che si vanno strenuamente combattendo su questo fronte, non sono altro che un capitolo, importantissimo, della quotidiana fatica che impegna uomini e donne del nostro tempo a riconquistare il senso più autentico della libertà ed il valore inestimabile della loro dignità.



[1] V. in proposito la sezione monotematica (a cura di S. Saccardi) dedicata alle Patologie del nostro tempo («Testimonianze», nn. 438-439).

[2] Come non ricordare in merito il «classico» testo del grande F. Dostoevskij intitolato, per l’appunto, Il giocatore (Feltrinelli, Milano 2012)?

[3] V. in proposito la sezione monotematica (a cura di S. Saccardi) dedicata alle Generazioni a confronto («Testimonianze», nn. 447-448).

[4] Di Massimo Recalcati, v. in particolare, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano 2013.

[5] V. in proposito Avere vent’anni oggi (sezione momotematica a cura di S. Saccardi), «Testimonianze», nn. 492-493.

[6] V. in proposito Guidalberto Bormolini, Abbattere il tabù. Una nuova sfida per cambiare sguardo sulla morte e sulla vita, «Testimonianze», n. 494.

[7] M. Sbordoni (testimonianza raccolta da), Francesca esce dal tunnel, nella sezione monotematica (a cura di L. Grassi e S. Saccardi) Immagini della Resurrezione per gli uomini e le donne degli anni duemila, «Testimonianze», nn. 486-487.

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