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Articolo su Franco Fortini
Pubblicato nel n.219 della rivista on line CULTURA COMMESTIBILE

«E’ molto triste il destino dell’orso / Tutti gli tirano ghiande sul dorso / lui morde l’aria con mezzo morso / Quattro zampe un lungo percorso / Quattro pensieri un lungo discorso»: non sono versi di uno scrittore per l’infanzia, ma, curiosamente, di un autore importante e “impegnato”, quanto versatile, come Franco Fortini  (Piccolo zoo, in: Poesie inedite, ed. Einaudi, Torino 1997). E’ un profilo complesso da definire quello del poliedrico Franco Fortini (in realtà, Franco Lattes; il cognome Fortini è ripreso dalla madre). Poeta, scrittore, saggista, polemista politico e letterario, il grande intellettuale scomparve nel 1994, a causa di una grave malattia , segnata da non poca sofferenza, di cui poeticamente è frutto il piccolo, coraggioso e commovente libro di versi significativamente intitolato Composita solvantur  («Si dissolva ciò che è composto»), pubblicato da Einaudi  proprio nell’ultimo anno della sua intensa vita. Era nato, Franco, nell’«anno spartiacque» 1917, quello della rivoluzione sovietica e dell’inizio del «secolo americano». Vero avvio del «secolo breve», secondo una certa lettura della storia. Quasi un segno del destino. Quel secolo di passioni civili Fortini l’avrebbe respirato fino in fondo con veemenza e con un forte coinvolgimento ideale. Era un letterato fine, colto ed erudito, ma certo l’isolamento nella torre d’avorio non faceva per lui. Chi volesse farsi un’idea  del suo profilo (non semplice da delineare: era, infatti, definito talora «Fortini, l’oscuro», notazione tutt’altro che da intendere come demerito) dovrebbe forse ripescare in qualche biblioteca il bellissimo libro-intervista realizzato dall’allora giovane ricercatore Paolo Jachia (P. Jachia- F. Fortini, Fortini- leggere e scrivere, Marco Nardi editore, Città di Castello 1993). C’è tutto: ricostruzione biografica, rapporto fra studio e vita, dialettica fra memoria e avvenire, impegno sociale, «questione religiosa» in molte sue declinazioni (dal protestantesimo di Barth alla visione filosofica del cattolico Augusto Del Noce) e poi  il dialogo intimo e intellettuale con tanti autori: Gramsci, Sartre,  Lukács, Goldmann, Adorno, Benjamin, Bloch, Koestler, Silone, Merleau- Ponty. Perché questo era anzitutto Franco Fortini, in un modo e con uno stile che alle generazioni a noi più vicine sono difficili anche solo da immaginare: un intellettuale con una spaventosa  capacità di lavoro, con una grande voracità nel leggere e una invidiabile capacità produttiva e profondità nello scrivere. Una cultura vissuta con divorante partecipazione e al di fuori di ogni separatezza. La cultura, secondo concezioni come quella di Fortini, o fa tutt’uno con la vita o non è. Va messa a disposizione degli altri. Ma senza facilonerie, senza far sconti ed in modo serio e rigoroso.  Fortini, che passa anche per l’esperienza dell’ Olivetti, attribuirà sempre un grande rilievo al tema della formazione. Ne conosceva, del resto, l’importanza: per alcuni anni, aveva fatto anche l’insegnante di scuola media superiore.  Uno dei suoi molti ruoli: da giornalista e commentatore di vaglia ( e collaboratore di riviste il cui solo nome rappresenta una sorta di contrassegno di un’epoca, come i «Quaderni Piacentini») a scrittore e poeta, a docente (stimato) dell’ Università di Siena (dove ora il Centro Studi «Franco Fortini» ne coltiva intelligentemente la memoria). Il sapere, in ogni caso, senza perdere nulla della propria complessità, va trasmesso, condiviso, passato ad altri. Senza disprezzare anche gli strumenti della divulgazione «alta» e di buona qualità.  E’ con questo spirito che, nell’ «anno della contestazione», Franco Fortini pubblica (Il Saggiatore, Milano 1968) l’interessantissimo Ventiquattro voci per un dizionario di lettere. Spigolando, fra le «voci» troviamo: Antichi e moderni, Articolo, Assoluto, autobiografia, Baudelaire, Bouvard e Pecuchet,  Cardarelli, Cronaca,  Decadentismo, Dialogo, Eluard…..  Molti sono i motivi per cui si poteva voler bene all’intrattabile Franco Fortini ( famoso per il carattere pessimo, tendente alla litigiosità).  Se posso fare un riferimento personale, la scintilla da cui rimasi folgorato di stima e di ammirazione per questo atipico, controverso, e geniale scrittore la trovai in un articolo del quotidiano «il Manifesto».  Si intitolava Mezzo litro dopo sussurri e grida. L’articolo era, se non vado errato, del 1972 ( il testo è comunque reperibile in: F. Fortini, Non solo oggi , a cura P. Jachia, una raccolta pubblicata dagli Editori Riuniti nel 1991); Sussurri e grida era un film del grande Ingmar Bergman, da cui Fortini prende spunto per parlare di temi esistenziali (come il dolore, la malattia e la morte) quasi innominabili, in tempi ancora dominati da una visione ideologica che, interpretando dogmaticamente il marxismo, anteponeva il «collettivo» e marginalizzava  il «personale», accusando di «cedimenti  idealistici, mistici e irrazionalisti, chiunque osasse guardare» oltre il «limite oscuro» dell’esistenza umana. Per l’immanentista Fortini, la risposta alle angosce derivante per l’uomo dal «limite oscuro» della vita non può essere di carattere religioso; ma rispetto al tema religioso, egli (nato personalmente da padre ebreo non praticante e da madre cattolica, anch’essa non praticante, convertitosi al cristianesimo di confessione valdese, cui aderirà per un periodo, per approdare, poi, per la vita a posizioni marxiste) denuncerà sempre la limitatezza  dell’interpretazione fornitane dalle visioni scientistiche e grezzamente materialistiche. Mostrerà sempre un grande interesse per personalità e percorsi  segnati dal fuoco della fede. Come quelli di don Milani e della grande Simone Weil (entrambi, peraltro, come lui, di origine ebraica). Per quest’ultima (che in Italia fu iniziata a conoscere soprattutto per merito di Adriano Olivetti), Fortini nutriva  un «sentimento doppio di ammirazione  grandissima e di resistenza»(Fortini- leggere e scrivere, cit.).  Qualcosa di un radicalismo à la Weil doveva pur essere politicamente connaturato all’indole dell’inquieto scrittore. Di provenienza socialista, ma non riformista, approdato poi ad una sorta di comunismo eretico, del tutto non togliattiano e marcatamente antistalinista. Inequivoco nel denunciare le degenerazioni del «socialismo reale» di marca sovietica. Come nella bellissima  Lettera a una rivista sovietica (F. Fortini, Dieci inverni, Feltrinelli, Milano 1957). Di Fortini, dico la verità, nell’ultimo arco della sua vita, era difficile accogliere le posizioni via via più intransigenti che nascevano dal timore che, di fronte al cambiamento di paradigma che eventi come il crollo del Muro imponevano, prevalesse la tendenza rinunciataria all’omologazione alla logica dell’esistente. Si manifestava allora, in lui come in altri, un reazione istintiva di arroccamento e di chiusura. Ma sono posizioni che pure avevano un robusto nocciolo di «verità interna», a cui veniva comunque, anche nel disaccordo, da guardare con rispetto. Permaneva, fin negli ultimi giorni, in Fortini la curiosità e l’interesse per il mondo e insieme si manifestava il senso di impotenza di fronte agli eventi sconvolgenti che vi si manifestavano. Come viene evidenziato nelle Sette canzonette del Golfo  (in: Composita solvantur), particolarmente in questi versi di Lontano lontano:  “Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare. / E se anche potessi, o genti indifese, / ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese! / Potrei  sotto il capo dei corpi riversi / porre un mio fitto volume di versi? / Non credo. Cessiamo la mesta ironia. / Mettiamo la maglia, che il sole va via.”. Chi era dunque Franco Fortini? Forse il  tratto distintivo (e l’elemento unificante del suo multiforme talento e impegno) lo si trova nell’azzeccato titolo  di una sua raccolta di scritti: Questioni di frontiera (Einaudi, Torino 1977). Era un uomo «di frontiera», Franco Fortini e, anzi la sua nota caratteristica stava proprio nel muoversi su più terreni e più dimensioni «di frontiera». Ha un grande significato ricordarne la lezione  in un tempo in cui, non solo in senso materiale, ma anche  a livello mentale e culturale, tendono a rinascere barriere e muri alti come e più di quelli contro cui egli si era battuto per tutta una vita.

 

Severino Saccardi

 

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