L'eta' dei consumi e il paradosso della liberta'
dal N.470 di "Testimonianze"
Il dibattito sugli stili di vita è importante in sé e lo è, in un modo particolarissimo, in un tempo di crisi come l’attuale, in cui sicurezze e posizioni consolidate già vengono quotidianamente messe in discussione. Nel vuoto di iniziativa della politica, è dalle forze vive della società civile e della cultura che può avanzare una nuova consapevolezza che individui nel senso di responsabilità e di libertà del consumatore un regolatore della compatibilità etica ed ambientale dell’offerta e del mercato.
È un grande tema, quello degli stili di vita. Lo è in sé, per i suoi risvolti culturali, etico-antropologici e politici. E lo è, in modo particolarissimo, nel delicato periodo di crisi che la nostra società sta vivendo (1).
C’è una doppia, e quasi opposta valenza, nel dibattito che è ospitato in queste nostre pagine. In cui due domande, molto diverse fra loro, si intrecciano: cosa significa interrogarsi sull’“etica del consumare” in una società “affluente” come la nostra che, in pochi decenni, è passata dalla frugalità della società contadina alla consolidata abitudine di un’ampia disponibilità di beni e di merci? E quali echi può suscitare una tale riflessione in un passaggio controverso come l’attuale in cui certi livelli di vita sembrano già, di per sé, messi in discussione dai meccanismi brutali delle dinamiche economico-finanziarie?
Quando la frugalità era obbligata
Le resistenze, e le diffidenze, che si incontrano sono di non poco conto. Ne fa fede, in modo originale, il Progetto su La sobrietà come nuovo stile di vita, di cui un volume della collana “Briciole” del CESVOT espone”filosofia”, impostazione e risultati (2). Il volume è denso di spunti. C’è, ad es., un interessante scritto sulla “storicità” del denaro (3). Da leggere, in un tempo in cui il denaro, nell’età dei bancomat e delle transazioni on line appare, sempre più, come un’entità astratta. Da meditare, anche, per ripensare criticamente alla lezione degli anni recenti in cui l’impalpabilità della dimensione finanziaria si è autonomizzata al punto tale rispetto alla dimensione concreta del lavoro e della produzione fino a generare un movimento incontrollato che è sembrato sconvolgere sicurezze sociali e consolidati assetti di vita come una valanga (4). Viene anche proposta una ricostruzione, breve ed interessante, di un’epoca (quando la sigla s.m.s. non evocava brevi messaggi telefonici ma la realtà delle Società di mutuo soccorso) in cui il contesto di vita era “obbligatoriamente ispirato alla sobrietà” (5).
Sobrietà. Una parola-chiave eticamente densa e non semplice da proporre e da capire. Un termine che evoca un po’ l’austerità di berlingueriana memoria, pur mantenendo un’accezione complessivamente diversa e più esente dagli intenti “pauperistici” talora attribuiti, più o meno appropriatamente, all’allora leader del PCI. Francesca Balestri (che del Progetto, e del volume, in collaborazione con Arcisolidarietà Toscana, è stata curatrice) mette in guardia dalle impostazioni moraleggianti. Che incontrano, soprattutto, la diffidenza dei giovani. Si tratta, piuttosto, di promuovere una “cultura civica basata sul bene comune” e un sostanziale discorso di libertà: “libertà da” un certo condizionamento di carattere consumistico e “libertà per” (6). Per una nuova cultura della responsabilità ed una diversa etica del consumare. Si tratta, sostiene Vincenzo Striano di optare per una realizzazione di sé data “dalle relazioni con gli altri e non dal possesso di beni.” (7). Una scelta fra avere o essere. Alla Erich Fromm. C’è qui, tuttavia, un nodo politico, e culturale, che non può essere aggirato. Lo stesso Striano - durante la presentazione del volume alla manifestazione fiorentina di Terra Futura - denunciava la difficoltà di una tale affermazione a farsi largo, a mostrarsi convincente e seducente.
E’ la stessa questione su cui, efficacemente, in questa sezione monotematica di “Testimonianze” si sofferma Fabio Dei e che percorre altri interventi del nostro fascicolo. Qual è il punto? Cerchiamo di dirlo in due parole. Una contrapposizione troppo secca fra la dimensione del possesso e del consumo di beni (l’avere, appunto) e la coltivazione di gratuite relazioni umane (l’essere) non viene recepita e non è compresa. Nemmeno sulle questioni della pace o dell’educazione allo sviluppo, d’altra parte, un’impostazione moralistica o colpevolizzante dei temi proposti ha mai prodotto granché. Sui temi di cui siamo qui a discutere, lo dice bene Fabio Dei, siamo in presenza di novità feconde e di esperienze esemplari: dalla finanza etica (v. Morganti), ai movimenti per il consumo responsabile o per l’acquisto solidale, al commercio equo e solidale. Realtà importanti,dal punto di vista etico e civile. Che però - mi pare giusto il richiamo fatto in tal senso - rischiano di rimanere confinate in un’ottica minoritaria da “ceti medi riflessivi”, ricchi di idee e meno forniti di patrimonio. Lavorare ad una nuova, e più ampia, visione che, uscendo da un certo atteggiamento di supponenza, non veda nella massa dei consumatori generici solo un gregge manipolato (secondo una lettura marcusian-francofortese) dai meccanismi pubblicitari (di cui, intendiamoci - Panella docet - non vanno mai dimenticate le caratteristiche invasive e pervasive) è un’intuizione importante.
Il tempo della festa e il tempo del consumo
Si tratta di lavorare, a livello diffuso, perché emergano, anche nelle pieghe del consumo di massa e dei meccanismi della grande distribuzione, sensibilità nuove: che sappiano prediligere la qualità rispetto alla quantità, che sappiano valorizzare quelle attenzioni al risparmio, alla dimensione “affettiva” e significativa dell’acquisto che sono presenti talora, ma rimangono implicite o nascoste, perfino nei “non luoghi” dell’esibizione e dell’accaparramento compulsivo delle merci. Si tratta di dare segnali, anche simbolici, di novità. Turiddo Campaini ne propone uno (un suo cavallo di battaglia): la non apertura automatica dei centri commerciali nei giorni festivi. La sottolineatura (che, in senso etico-religioso, aveva fatto anche il vecchio papa Giovanni Paolo II) della necessità di tornare ad un minimo di distinzione fra tempo del consumo e tempo del riposo e della meditazione ha un valore anche dal punto di vista laico-secolare. E non è una regressione a nostalgiche rimembranze dei ritmi della (tramontata) civiltà contadina.
Certo, c’è una bella battaglia da fare se si vuole che i temi che oggi sono all’ordine del giorno (green economy, sostenibilità, nuovo modo di abitare e di concepire la città: v. il contributo di Giacomo Trentanovi) entrino nell’agenda economica e politica e si incontrino con la sensibilità “diffusa” della nostra società. Che è, intanto, una società impaurita. È uno dei due punti da cui è partito questo nostro ragionamento. Che notava come l’intonazione “anticonsumistica” della riflessione sugli stili di vita possa giungere con un suono assai particolare alle orecchie di cittadini, produttori e consumatori, già gravati dagli affanni di una quotidianità che pare mettere in discussione livelli di reddito, posti di lavoro e sicurezze di ordine materiale e psicologico. C’è, certamente, chi sostiene (talora con argomenti non banali) che la recessione possa rappresentare un’occasione. L’occasione, per individuare, dal punto di vista sociale ed etico, nuovi parametri di pubblica felicità (8). L’amico Pietro Del Zanna (con cui è in corso da tempo un’aperta discussione sul tema) propone con coerenza il tema della decrescita. Personalmente (ma posso, grossolanamente, sbagliare) ho molti dubbi che la proposizione di una simile prospettiva possa essere positivamente intesa in società in cui il rischio di una decrescita, obbligata, coatta e mortificante c’è già. Decrescita e declino rischiano di apparire come sinonimi. Convincente mi pare, invece, una scommessa basata su uno sviluppo che trovi nella sostenibilità, nelle teconologie non inquinanti e in un’economia eco-compatibile i suoi cardini.
I tre comparti della società
Certo, su questa strada, incontriamo una difficoltà non da poco. L’inadeguatezza della politica. Lo rileva, con lucida analisi, Giuseppe De Rita (9). Il quale vede l’attuale società, investita dal ciclone della crisi, suddivisa in tre comparti. In “alto” la dimensione finanziaria, presa dalle sue dinamiche micidiali, in “basso” il popolo, intimorito dagli accadimenti e sostanzialmente rassegnato (salvo qualche fiammata ribellistica di tipo “greco”), in mezzo la politica, incapace di elaborare strumenti atti a fronteggiare una temperie particolarissima come l’attuale. Dove e come individuare una via d’uscita? Nella società stessa, è l’interessante ipotesi da sottoporre a verifica, in nuove forme di “mutualità”. In “movimenti e soggetti intermedi di iniziativa e responsabilità” (10).
Naturalmente il tema della riforma, e di un’assunzione di responsabilità, della politica non può essere eluso, soprattutto a fronte di problemi così cruciali. Ma l’idea di una chiamata a raccolta, propositiva, e non minoritaria, delle forze vive della società, è convincente. E può, in prospettiva, perfino essere vincente.
In tale impresa - sono le considerazioni con cui formulare una conclusione provvisoria - una responsabilità primaria ha il mondo della scuola e della cultura. Una scuola non chiusa all’interno delle sue mura, come puro contenitore e parcheggio di energie giovanili, ma capace di fare memoria (del tempo in cui mutualità e l’associazionismo furono scelte pionieristiche, di cui riscoprire il valore) e di incoraggiare un atteggiamento consapevolmente critico verso il modello di donna, di uomo e di persona che la società-spettacolo va oggi piattamente proponendo. Una cultura che non riduca se stessa alla coltivazione dei “grandi eventi” e all’ingessamento dentro le istituzioni ufficiali del sapere, ma che sappia continuare a proporsi nelle espressioni vive del volontariato e della società civile. Una “cultura diffusa”, che è il miglior antidoto, rispetto al conformismo e al recepimento inerte e acritico del flusso della “comunicazione globale” e che starebbe anche alla politica (anche se in tempi di tagli indiscriminati delle risorse può sembrare una considerazione anacronistica) difendere, promuovere e consolidare.
È a partire dalle forze, comunque vive, anche se talora inespresse, della società che può partire uno scatto di consapevolezza. In un’epoca (come ricordano praticamente tutti gli amici intervenuti in questo nostro volume) in cui non solo il produttore, ma anche il consumatore ha ruolo e peso politico, è bene attrezzarsi per far crescere nuovi orientamenti, in direzione di una crescente indisponibilità allo “scambiare il ben-avere per ben-essere”, imparando che “ogni nostro atto di acquisto può trasformarsi in un formidabile regolatore della eticità/compatibilità”(11) dell’offerta e del mercato. Un atto, promettente e incredibile a dirsi, di libertà.
1) Agli aspetti, non solo economici, ma anche umani e “di costume” che caratterizzano la crisi attuale, “Testimonianze” ha dedicato (nel n. 463) una sezione monotematica sull’Antropologia della crisi (a cura di A. Giuntini, P. Del Pasqua e S. Saccardi).
2) V. La sobrietà come nuovo stile di vita, n. 23 del trimestrale del CESVOT “Briciole” (a cura di F. Balestri). Del Progetto si parla anche nella rubrica “Società civile” del nostro volume (intervista a F. Balestri, a cura di C. Guccinelli).
3) L. Senatori, La storia del denaro, ivi.
4) La valanga- Dalla crisi economica alla recessione globale (ed. Laterza, Roma- Bari 2009) è l’eloquentissimo titolo del libro scritto, in merito, da M. Gaggi.
5) L. Senatori, Il sistema Arci: una storia di sobrietà, in “Briciole” n. 23 cit.
6) F. Balestri, Introduzione al volume di “Briciole” cit.
7) V. Striano, Prefazione al volume di “Briciole” cit.
8) Su Economia e felicità,v. l’interessante volume di “Aspenia” (n.28/2010), che pubblica, tra l’altro, un Forum su La (de)crescita in Europa.
9) G. De Rita, Finanza e popolo sempre più lontani. Una speranza nel fare da soli, “Corriere della Sera”, 29 Maggio 2010. Su temi analoghi, v. anche (Corriere Fiorentino, stessa data), di A. Simoncini e F. Lenzi, La terza via del welfare.
10) G. De Rita, ivi.
11) G. Fabris, La società post-crescita- Consumi e stili di vita, ed. Egea, Milano 2010, p.408 e p.413.
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