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In un'eta' senza "Principi"?
"Testimonianze" NN: 488-489

Al di là della dimensione celebrativa, il cinquecentesimo anniversario del Principe fornisce l’occasione per una riscoperta, di evidente valore storico e culturale, dell’opera e della figura del «fondatore» della concezione moderna della politica, di cui risaltano le intuizioni e, insieme, i limiti. Se Machiavelli pose, allora, il tema dell’autonomia della politica dall’etica, è evidentemente anche di una nuova valorizzazione della valenza etica che c’è, oggi, bisogno nella dimensione pubblica. Nel tempo della «città-mondo» è, d’altra parte, solo in una prospettiva sovranazionale che la politica medesima può recuperare significato ed efficacia, ridiscutendo confini e ambiti dell’esercizio del potere in un contesto in cui ardua da identificare è la configurazione del Principe (o dei Principi) dell’«età planetaria».

 

Emozioni di 500 anni fa

Lo scorso febbraio, in una chiara giornata invernale riscaldata da un tiepido sole, un piccolo e suggestivo corteo in costume nel centro storico di Firenze ha fatto rivivere emozioni e drammi di 500 anni fa. Il corteo era aperto da un messo a cavallo, in abiti cinquecenteschi che, a partire dal Palagio di parte Guelfa, transitando per Ponte Vecchio e per Piazza della Signoria, soffermandosi in luoghi di suggestiva bellezza, leggeva ad alta voce (incuriosendo frotte stupefatte di turisti e di curiosi, pronte ad immortalarlo con macchine digitali e cellulari) il drammatico bando con cui si invitavano, a suo tempo, i fiorentini a denunciare un famoso uomo pubblico caduto in disgrazia e trattato alla stregua di un fuorilegge. Come era ormai considerato, dopo la caduta della Repubblica ed il ritorno dei Medici, l’ex Segretario fiorentino Niccolò Machiavelli. Machiavelli, poi, fu preso, incarcerato nel Palazzo del Bargello e torturato. Ma, resistendo alle sevizie, non parlò. Ebbe salva la vita e se la cavò con un anno di soggiorno obbligato presso la sua casa dell’«Albergaccio» a Sant’Andrea in Percussina (nel Comune di S. Casciano Val di Pesa). Su una collina ridente da cui, però, ser Niccolò (come ricorda don Andrea Bigalli, che di Sant’Andrea è oggi il parroco) il cupolone poteva vederlo e contemplarlo, ma solo da lontano. Un’immagine invitante, e struggente, avvolta dalla nostalgia di un tempo (quello dell’esercizio di un ruolo importante nell’amata città di appartenenza) che non sarebbe più tornato e che appariva ormai legato ad una dimensione e ad uno status ai quali vano sarebbe stato cercare di approdare nuovamente, come gli anni successivi avrebbero crudelmente mostrato. Ha un tratto amaro, e in qualche modo paradossale, la vicenda esistenziale in cui Niccolò Machiavelli si trova immerso con la drammatica cesura che l’anno 1512 introduce nella sua vita e con la caduta in disgrazia che ineluttabilmente ne consegue. Eppure, nei suoi scritti, egli avrebbe seccamente diagnosticato il destino dei profeti disarmati. Che (come dimostrava la fine del visionario Savonarola) «ruinorno». Ora, per singolare contrappasso, era egli stesso, già accorto, realistico ed intelligentissimo fiduciario e messo del potere (nell’età della Repubblica e di Pier Soderini), a trovarsi, sia pure con esiti meno tragici, irreparabilmente in rovina.

 

Come un profeta disarmato qualsiasi

Come un profeta disarmato qualsiasi che la circospezione, il disincanto e la lucida conoscenza delle miserie e delle ambizioni umane non erano state sufficienti, evidentemente, a mettere al riparo. È dolente, forse, oltreché apparentemente e sottilmente sarcastico e «volpino» il sorriso malinconico nel celebre ritratto di Santi di Tito (art. Marzia Pieri) che sembra far da schermo, e da difesa, al nucleo più profondo della sua identità. Chi fosse veramente Machiavelli è difficile da ricostruire. Nonostante o forse proprio a causa (Bertelli e Barzanti) degli studi che su di lui sono stati effettuati. È sorte non inconsueta per autori grandi e controversi. E controversa la fama del grande Fiorentino lo è come poche altre. In questo senso (Alessandri), interessantissime sono la ricostruzione e le suggestioni proposte dalla mostra del Vittoriano di Roma. Dove si ricorda che è verosimilmente dal nome del nostro grande Niccolò che è ripresa l’espressione popolare inglese «Old Nick» con cui è indicato, niente meno che il diavolo. E dove è riportato alla mente l’ostinato ostracismo cui la sua opera, per un tempo lunghissimo, è andata incontro, pur diffondendosi e facendo parlar di sé per ogni dove. Come attestano le infinite edizioni, nelle più diverse lingue e traduzioni, soprattutto del suo Principe. «Uno opuscolo», dedicato a Lorenzo II de’ Medici, con l’immediato scopo anche di accreditarsi nelle sfere del potere, la cui composizione è da lui stesso rivelata all’amico Francesco Vettori. E della cui lezione si parla (come racconta Valdo Spini) perfino nella Cina dell’anno 2013. Una lezione su cui viene, una volta di più, di tornare a riflettere, anche a partire dalle numerose qualificate (e tutt’altro che solo commemorative) iniziative del cinquecentenario del Principe in cui si inserisce anche il volume di «Testimonianze». Che intende, proprio con una pluralità di letture, di interpretazioni e di punti di vista, recare un contributo alla ricerca comune. In maniera velocissima e sintetica, oltre a ringraziare gli amici che alla sua realizzazione hanno contribuito con i loro interventi, vorrei fornire qualche spunto a questa appassionante discussione. Come trovare oggi gli ingredienti, per così dire, per «cucinare il Principe», come, con ardita e riuscita metafora teatrale, si cerca di fare nella rappresentazione messa in scena (su testo e regia di Stefano Massini) a S. Casciano ed al Bargello di Firenze dalla Compagnia «Arca Azzurra»? È un grande tema dei nostri tempi, quello delle modalità e delle strategie per Scegliere il principe[1]. Un tema in relazione al quale i consigli di Machiavelli (che hanno «sempre spietatamente presenti i limiti della condizione umana»[2]), pur formulati in un tempo così lontano, difficilmente possono esser lasciati cadere nell’oblio. Non va, d’altra parte, dimenticato che la diffidenza nei confronti del «realismo» e dell’apparente cinismo del potere sostenuto da Machiavelli, è stata prerogativa non solo di oscurantisti naturalmente ostili ad una visione moderna della politica. Basti in merito citare il caso di Piero Gobetti. Che riteneva che la concezione di Machiavelli fosse assai «rudimentale» rispetto a quella dello Stato moderno. Gobetti era, d’altra parte, «agitato dal sospetto» che quel «premoderno» pensiero si prestasse ad essere piegato a perverse attualizzazioni, come sembrava dimostrare proprio il fatto che «Mussolini fosse riuscito a “catturare” alcune realistiche indicazioni del Principe, tuttora valide nell’Italia del XX secolo»[3].

 

Il grande inquisitore e lo zotico saputello

Di singolari forme di attualizzazione delle tesi del Principe, d’altra parte, ce ne sono non poche. E di segno, incredibilmente, opposto. Come nel caso, drammaticamente emblematico, dell’Unione Sovietica degli anni 30. Dove, nel tempo di ferro e di fuoco dell’età staliniana, è un oppositore «di sinistra» come Kamenev (che, nel 1936, sarà processato e condannato a morte insieme a Zinov’ev) a pubblicare «() Il Principe, con una sua prefazione, proprio perché pensava che questo libro sarebbe stato utile per smascherare e combattere Stalin»[4]. Ma il grande inquisitore Andrej Višinskij ritorce grottescamente contro l’incauto accusato il riferimento al grande testo cinquecentesco. Non chiedendo certo, ai «compagni giudici» di «considerare questo libro come un corpo del reato», ma prendendo atto che «Kamenev parla del libro di Machiavelli come di un ordigno dall’immensa forza esplosiva» e rilevando che «Kamenev e Zinov’ev volevano evidentemente servirsi di tale ordigno per far saltare la nostra patria socialista». Nonostante «Machiavelli sia al loro confronto un saputello e uno zotico, fu nondimeno il loro maestro spirituale (…)»[5] è l’argomentazione della stilettata finale. Naturalmente, molti, e controversi, potrebbero essere i riferimenti al riguardo delle interpretazioni, delle «appropriazioni» e dei fraintendimenti delle tesi di Machiavelli. Se ne parla anche negli interventi della nostra sezione tematica. In cui su non pochi nodi di tale intricata discussione vengono espressi diversificati punti di vista. A partire dall’ottica medesima con cui Machiavelli guardava alle cose del mondo. Fu davvero, in una forma che è considerata quasi proverbiale, un teorico del «realismo», Machiavelli? O non fu piuttosto, nella sua ricerca di un’innovazione della dimensione pubblica (come allora era configurata), nella coltivazione di un sogno di riscatto delle contrade italiche dal servaggio allo straniero e nel riferimento alla fede repubblicana, l’incompreso annunciatore di un’«utopia» (Dei) e di una visione rivoluzionaria della storia? Ma, a ben vedere, fu davvero, fedelmente e fino in fondo «repubblicano» o non fu soprattutto (Siliani) un appassionato cultore del potere (oppure, in una più favorevole versione, della volontà di servire la città al di là della mutevolezza delle istituzioni) che a riavvicinarsi alla sfera del potere medesimo (come la dedica del Principe indurrebbe a pensare) era comunque interessato? Non sta certo a noi (e non è alla nostra portata) sciogliere l’«enigma Machiavelli». Va registrato, comunque, come storicamente acquisito l’assunto (che è poi alla base delle celebrazioni di questo anno) secondo cui l’eredità di Machiavelli si condensa (Pasquino) nella nascita, e nell’avvio al successivo consolidamento, della moderna scienza della politica. Anzi nell’individuazione della dimensione dell’autonomia della politica (che - ricorda Rogari - non è relegabile nel riduttivo ambito della sovrastruttura), con le sue «leggi», le sue dinamiche interne, la sua definizione nel contesto di precise configurazioni e sulla base di definite impalcature istituzionali. È vero, d’altra parte, che la storica lezione di Machiavelli fa da premessa ai successivi lasciti di Locke (liberalismo e tolleranza) e di Montesquieu (divisione dei poteri). È «laico», anche se non irreligioso, il Segretario fiorentino. E la sua distinzione netta del piano della morale da quello della politica (che, non solo al suo tempo, ha suscitato perplessità ed ha rappresentato talora il pretesto per rigettare complessivamente la sua opera) sembra quasi confinata ormai, da lungo tempo, nella sfera dell’ovvio.

 

La «rivoluzione copernicana» della politica

Prendendo a prestito l’espressione da un linguaggio e da un ambito di conoscenza in cui si è definita l’alba stessa della modernità, potremmo dire, in definitiva, che sta tutta in questa «ovvietà» la sua «scandalosa» e specifica «rivoluzione copernicana». Una rivoluzione che, prendendo atto che l’umanità è fatta con «legno storto» (come qualcun altro l’avrebbe poi autorevolmente ricordato), parte dalla constatazione che, se l’etica è un riferimento fondamentale per gli individui e le loro scambievoli relazioni, la politica è un’altra cosa ed ha un suo proprio statuto. Una considerazione da cui sarebbe, dunque, antistorico ed anacronistico astrattamente prescindere. Da lì bisogna comunque partire. Ma va pur detto che non ci sono acquisizioni (pur fondamentali) che non si prestino a qualche controdeduzione. Fondamentale è quella che induce a contestualizzare storicamente ogni tipo di elaborazione (e dunque anche quella messa a punto dall’autore del Principe) e che porta a constatare le notevoli differenze di regole, di princìpi, di organizzazione istituzionale e di mentalità che distingue (fortunatamente, e in positivo) le democrazie moderne rispetto ai pur diversificati sistemi di potere di cinquecento anni fa. Le osservazioni di Gobetti sopra accennate avevano in questo senso (al di là del riferimento al preoccupante «machiavellismo» di Benito Mussolini) un loro evidente fondamento. Ma è pur vero che potrebbe essere osservato, nell’ambito dell’attualizzazione dei temi proposti secoli fa dal grande segretario fiorentino, che oggi è proprio la stessa versione (e la forma) democratica del «Principe» (cioè, della politica) ad essere in crisi. Una crisi a cui, però, forse uno sbocco può essere cercato, pur senza negare l’indiscussa e storica eredità «machiavelliana», in direzione se non opposta certamente complementare rispetto alle indicazioni che essa ci ha lasciato. Cioè in un recupero non velleitario di elementi (non ideologici, beninteso) di idealità e di etica senza i quali la dimensione stessa della politica si inaridisce e impoverisce, soprattutto, la sua capacità di risolvere problemi.

 

Il «bene comune» nell’età planetaria

Certo, molta è l’acqua che (culturalmente) è passata sotto i ponti e non appena si sfiora il rapporto fra etica e dimensione pubblica bisogna immediatamente precisare (come l’imprescindibile Weber insegna) se è di etica della convinzione o di etica della responsabilità che si ragiona. In ogni caso, e su questo Machiavelli era pienamente d’accordo e ne faceva, anzi, il riferimento-cardine della sua opera, è da una considerazione che bisogna (ri)partire. Da quella per cui «(…) non il bene particulare, ma il bene comune è quello che fa grandi le città»[6]. Su che cosa, infatti, è misurabile l’agire politico se non sulla sua efficacia rispetto al perseguimento del «bene comune »? E’ rispetto a tale dimensione che sono, evidentemente, sul tappeto altre due grandi questioni che ci riconsegnano, intero, il peso della nostra responsabilità. Una è quella del rapporto fini-mezzi. Rispetto al quale l’insegnamento delle grandi esperienze e figure nonviolente (dei «profeti disarmati», del Novecento e della storia a noi prossima, da Tolstoj a Gandhi a Martin Luther King), fa da fecondo contraltare alle posizioni consolidate di un certo «machiavellismo» (ed in parte anche a quelle, originarie, dello stesso Segretario fiorentino), ricordando che mezzi ignobili e violenti distorcono i fini, anche i più nobili. E dimostrando che cultura della pace e nonviolenza possono diventare idee-forza ed elementi strategici di un moderno «realismo» di un’azione politica non disancorata dall’idealità e dai valori di un nuovo umanesimo. L’altra, e conclusiva, questione di queste mie considerazioni è quella dei confini, degli ambiti di intervento e delle prerogative stesse della politica in un tempo in cui i problemi divengono «globali» ed i destini dell’umanità si definiscono all’insegna di una crescente interdipendenza. Machiavelli ha avuto il merito di focalizzare il tema (e di contribuire a coniare il temine stesso ) dello «stato». Ma, oggi, e da tempo, sono in crisi la funzione, e l’idea stessa, dello stato-nazione. C’è un bisogno crescente di istituzioni sovranazionali che affrontino, in un’ottica condivisa, i «temi assoluti» (secondo la definizione di Ernesto Balducci[7]) della convivenza, della pace e del controllo degli armamenti[8], dell’ambiente, dello sviluppo umano e sostenibile. Ma è un compito arduo, quasi come quello che aveva posto a se stesso il Segretario fiorentino. Non è semplice misurarsi con una riforma globale della politica che ne limiti la prepotenza proprio per conferirle una nuova efficacia (diciamo pure una rinnovata «potenza») per tutelare il «bene comune» in una dimensione che ha ormai i confini stessi del pianeta. Non è impresa da poco individuare un «Principe» per i nostri tempi. La ricetta, per tornare alla metafora teatrale, non è a portata di mano. E, per intanto, non è semplice adattarsi a vivere, a cercare la soluzione dei problemi, in quella che potremmo provvisoriamente definire come un’età senza «Principi».



[1] Scegliere il principe è il titolo del recente libro di Maurizio Viroli (dedicato ai consigli di Machiavelli al cittadino elettore), edito da Laterza (Bari 2013).

[2] P. Melograni, Introduzione a Il Principe di Niccolò Machiavelli (testo originale e versione in italiano contemporaneo), Oscar Modadori, Milano 2013, p. XXVI.

[3] Ivi, p. XXV. Gobetti, d’altra parte, fra i pensatori del Novecento, era in buona compagnia nell’esser diffidente verso le concezioni antropologiche e politiche del Segretario fiorentino. Basti pensare, in merito, alle considerazioni di un grande esponente del pensiero cattolico-democratico come Jacques Maritain.

[4] Ivi, p. 19.
[5] Idem

[6] E’ la frase di Machiavelli che pone a epigrafe del suo libro (Machiavelli. Un italiano del Rinascimento, Oscar Mondadori, Milano 2013) Lucio Villari. È anche a partire dai temi del libro che è stata impostata da chi scrive l’intervista a Villari riportata in questo volume, di cui parla, nell’ambito della sezione monotematica, anche Nicoletta Marcelli.

[7] Ernesto Balducci, come è noto, ne parla, in particolare, ne La terra del tramonto (ECP, S. Domenico di Fiesole, Firenze 1992).

[8] A questo riguardo, è Danilo Taino («Corriere della Sera», 9 Giugno 2013), a ricordarci (facendo riferimento all’annuale rapporto del Sipri, l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma) Il fascino perenne delle armi nucleari. Che «sono sempre lì: a inizio 2013, 17.265 (in neretto nel testo, n.d.r.) testate detenute da otto Paesi più la misteriosa Corea del Nord)».

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