Dietrich Bonhoeffer: un pensiero per il futuro
(Testimonianze n. 443-444/2005)
Il nostro mondo vive occasioni, contraddizioni e problemi (basti pensare a quelli dischiusi dalle biotecnologie) che ai tempi di Bonhoeffer erano inimmaginabili.
E viviamo in un contesto che è, per certi versi, assai differente dall’“epoca adulta” preconizzata dal martire di Flossenburg. Ma le intuizioni bonhoefferiane costituiscono ancora una “segnaletica” fondamentale (un vero “pensiero per il futuro”) per leggere i controversi segni dei nostri tempi.
C’è stato un momento del lungo secondo dopoguerra, in decenni meno lontani di quanto non appaia alla memoria, in cui Bonhoeffer è stato teologicamente e culturalmente in auge.
E’ stato scoperto. Valorizzato. Citato, in abbondanza. Frainteso, forse. O, perlomeno, inteso ed interpretato in maniera parziale e, talora, fuorviante. Erano tempi di rottura: lo si può comprendere.
Quando Dio era “morto”
Che Dio fosse “morto” era senso comune nella cultura nuova ed alternativa che si andava proclamando ed affermando. Lo dicevano perfino i testi della canzoni in voga che pure facevano intravedere come, attorno ai valori aurorali di un’umanità rigenerata, si sarebbe potuto nuovamente proclamare che “Dio è risorto”. Fu, certo, una stagione importante: un tempo in cui cominciarono ad avere largo corso i temi del cristianesimo “non religioso” ed iniziò ad essere, da tanti, introiettata la distinzione, tuttora vitale, fra “religione” e “fede”. Una distinzione che mi pare derivi da Barth prima ed oltre che da Bonhoeffer. E’ una distinzione che abbiamo sentito declinare con forza in ambiti a noi vicini. “La religione scrive il nome di Dio, la fede lo cancella”, diceva Balducci (1).
Un’espressione efficacissima, e tutt’oggi da meditare, all’interno dei tanti nodi del rapporto fede-chiesa-mondanità che si faticano a sciogliere e, a volte, anche solo ad inquadrare correttamente.
Ma presto ci sarebbe stato chi, non a torto, avrebbe fatto notare che non sempre è semplice ed agevole scindere i due termini sopraindicati. E sarebbe stato d’obbligo prender nota che la “morte di Dio” non è un processo univoco. E nemmeno, in tempi di post-disincanto e di ricorrenti discussioni sulla “rinascita del religioso”, irreversibile (2).
Tornare a parlare, oggi, di temi bonhoefferiani significa dunque riproporre riflessioni ed opzioni già datate? Chi scrive crede, noi crediamo, tutto il contrario. Proprio perché il riferimento a Bonhoeffer è stato, a suo tempo, entusiasticamente proposto ed affermato, ma forse non abbastanza o non sempre adeguatamente meditato o compreso fino in fondo, ha senso tornare a parlarne oggi. Come la varietà e la “plurale” ricchezza di sensibilità e letture che i contributi degli amici che hanno scritto per questa sezione monotematica stanno ad attestare.
Ricordare la figura di Dietrich Bonhoeffer nel sessantesimo anniversario della sua drammatica scomparsa risponde, certo, anche ad un pressante imperativo di carattere storico-culturale ed etico-spirituale. Ma non si tratta solo, o principalmente, di un atto doveroso. Vuol essere, piuttosto, nel ricordare e nel rimeditare una figura ed una lezione, una riscoperta. Una meditazione fatta con occhi nuovi. E, forse, chissà, anche più attenti.
Un resistente
Non è banale, né retorico omaggio, ricordare e ripensare, intanto, la figura di Bonhoeffer come resistente antinazista e martire. Nel tempo dell’eterno presente della comunicazione globale e dell’informazione affluente, che paradossalmente tutto appiattiscono e che desertificano la memoria, tornare a cercare nella profondità delle radici vuol dire andare meditatamente controcorrente. La ricerca delle migliori radici storico-culturali dell’Europa ed il ricordo di percorsi come quello di Dietrich Bonhoeffer hanno un valore paradigmatico.
E’ passando attraverso scelte radicali come quelle compiute da questo singolare e coraggiosissimo pastore protestante, teologo contro Hitler (3), che l’Europa ha recuperato e salvato la prospettiva di un futuro di pace e democrazia
in mezzo al cataclisma della seconda guerra mondiale. Ha ragione Alberto Conci, nella sezione monotematica del nostro volume, a sottolineare che, per il teologo impiccato a Flossenburg, la pace è un “comandamento concreto” di Dio. Ma è una deduzione tutt’altro che di natura puramente intellettuale o spirituale. Per Bonhoeffer, l’uomo ed il cristiano “adulto” è chiamato a testimoniare tali istanze fondamentali nella storia e ad agire ed a lottare perché esse si affermino. E’ da lì che deriva, come viene sottolineato anche in più parti e da più voci negli scritti per la nostra Rivista, la scelta radicale di partecipare alla resistenza ed alla cospirazione contro Hitler. All’insegna della scelta consapevole che bisogna resistere al male, quando esso si incarna in forze distruttive e nefaste operanti nella storia, per contrastare disegni strutturalmente “ostili a Dio” ed alla dignità dell’uomo. L’opzione bonhoefferiana per la “mondanità”, qui, coincide, tout court, ed a costo del rischio e del sacrificio personale,con l’impegno nella storia. Valgono, in questo senso, le suggestioni che sostanziano le riflessioni, di forte valenza educativa e culturale, di Eraldo Affinati: spendersi, “sporcarsi le mani”, lasciarsi coinvolgere e saper fronteggiare la “terribile dialettica” cui la storia, talora, ci mette di fronte. E’ una lezione ed una grande indicazione, di carattere pedagogico ed antropologico, per le generazioni che sono adesso in formazione. E che hanno, in prospettiva, da affrontare contraddizioni di non poco peso: contraddizioni delle quali le esplosioni delle banlieus e le nuove lacerazioni del tessuto metropolitano non sono che un segno.
Fu terribile, è vero, la prova storica e personale che Bonhoeffer dovette affrontare. La sua esperienza, nelle fasi ultime e decisive, è particolare, come più volte è stato notato, anche per il timbro umano con cui le prove cui il teologo antinazista è sottoposto vengono affrontate. C’è non solo, come ricorda Paolo Ricca con toni di notevole delicatezza, l’aspetto esistenziale ed umano del rapporto con Maria von Wedemeyer che viene coltivato con intensità e trasporto dalla “cella 92”.
C’è soprattutto - come giustamente mi ha ricordato in una recente conversazione Lodovico Grassi che, con Andrea Bigalli, di questa sezione tematica è stato attento curatore - il dato (veramente “adulto”, verrebbe da dire con termine bonhoefferiano) di un prigioniero che in cella si dà forza e si riscatta dall’angustia e dai patimenti della prigionia con la forza del pensiero, della riflessione e della scrittura. Dice, del resto, lo stesso Dietrich, scrivendo ad Eberhard Bethge: “Perdonami se continuo a mandarti ‘riflessioni’ (…) ma qui io vivo prevalentemente nella riflessione” (4).
E’ un tratto, questo, che avvicina la figura di Dietrich Bonhoeffer a quella di tanti altri, illustri o sconosciuti, prigionieri politici e di coscienza (e, talora, anche detenuti “comuni”) che, nella privazione della libertà hanno trovato nella cultura e, talora, nell’originale elaborazione di un pensiero personale un elemento non solo di riscatto, di consolazione e di “terapia” psicologica e spirituale, ma anche di resistenza all’oppressione.
L’“università del carcere”
Così era nell’ “università del carcere” e del confino durante il fascismo in Italia, come è stato raccontato da antifascisti noti e meno noti (5). Così è stato, a diverse latitudini, sotto regimi autoritari e totalitari, in Italia, Spagna e Germania, in Polonia, nel gulag sovietico e nelle prigioni del Sudafrica dell’apartheid. Vengono in mente i nomi di Antonio Gramsci, di Jacek Kuron e di Adam Michnik, di Nelson Mandela. Viene in mente, in una realtà diversa da quelle finora citate, in un Paese democratico come lo è, con tutte le sue contraddizioni, l’Italia dei nostri giorni, il nome di Adriano Sofri. Che dal carcere ha scritto a getto continuo, rivelandosi, e confermandosi (al di là della condivisione o meno di tutte le posizioni che via via è andato esprimendo), una delle coscienze più vigili della nostra società. In un momento, come quello in cui vengono scritte queste note, di grave preoccupazione per la sua salute è spontaneo inviargli idealmente auguri e sentimenti di vicinanza.
Ma torniamo a Dietrich. Ed al tema - quello da cui sono partite anche le nostre riflessioni - per cui il suo nome è ormai diventato universalmente noto. La denuncia di una religiosità “antimondana” ed alienante che corre in parallelo e raccoglie la sfida del grande pensiero ateistico e scettico contemporaneo. La rinuncia ad un Dio “tappabuchi” (ricordata, ovviamente, pressoché da tutti gli intervenuti, nel nostro fascicolo). La ricerca di una fede “adulta” che sia altro rispetto alla tradizione chiesastica e che suoni come apertura all’“altro” all’insegna del comandamento cristiano - il “vero” comandamento, da considerare ed assumere con serietà nuova - dell’amore. Di questo, non di altro, infine, sarebbe stato fondamentalmente esempio Gesù come “uomo per gli altri”.
Che cosa pensare, oggi, a sessanta anni e più di distanza, dell’invito a vivere ed a crescere come esseri umani consapevoli, generosi ed “adulti”, come se, o anche se (a seconda delle sottolineature interne ad una vecchia disputa, che risale d’altra parte ai tempi del giusnaturalismo) “Dio non ci fosse”?
“Ciò che non si nomina si dimentica”
Eraldo Affinati, nel suo libro già citato su Bonhoeffer, per dare più forza alla sua riflessione e all’evidenza di una lacerante contraddizione cita “uno studioso profondo ed appassionato quale Sergio Quinzio” ed una sua opera significativamente intitolata La Croce e il nulla, in cui si nota che “anche questa via” (quella dell’opzione bonhoefferiana) “si è dimostrata a sua volta distruttiva. Ciò che, senza vederlo, si nomina, si consuma e ciò che non si nomina si dimentica”(6).
Emerge in controluce, in questa lacerante proposizione, la trama contraddittoria e ambivalente del tessuto sociale e culturale che è sotteso ad alcune delle più scivolose controversie del mondo in cui ci è dato vivere. Un mondo di cui, da voci autorevolissime, è lamentata la perdita di sensibilità etica e religiosa ed è evidenziata la “scristianizzazione”. Non penso alle insopportabili e spesso strumentali, quanto inedite, petizioni di principio di “teocon” ed “atei devoti”. E nemmeno a ripetuti dibattiti come quelli sull’esposizione o meno di simboli religiosi (presentati riduttivamente ed impropriamente come simboli di carattere “identitario” e “culturale”, dunque “parziale” e “particolare”, in un’accezione che avrebbe fatto davvero inorridire Bonhoeffer), come quello (emblematico) che si sarà probabilmente già svolto quando “Testimonianze” sarà in libreria, presso il Consiglio regionale della Toscana - di cui accenno perché ne ho diretta nozione- su due mozioni del centrodestra. Che propongono rispettivamente l’esposizione del Crocifisso negli uffici pubblici della Regione e ne contestano l’eventuale rimozione dalle aule scolastiche. Mi riferisco piuttosto a quanto, autorevolissimamente, e con angoscia, rilevava Papa Wojtyla relativamente alla paventata deriva “secolaristica” del nostro continente. Ed a quanto, sul rapporto fede-ragione, va proponendo Benedetto XVI, trovando echi singolari e inopinati in importanti interlocutori “laici” (7). Come è, quanto meno sul piano etico e dei valori, nel caso di Jurgen Habermas. O, in casa nostra, di Giuliano Amato.
Viviamo, non c’è dubbio, in un contesto ed in un momento che è - antropologicamente, culturalmente e socialmente - di grande complessità. C’è da dire che le preoccupazioni relative alla perdita dell’ “identità cristiana” (ma il cristianesimo non era prima ancora, e invece, che un “patrimonio identitario, un “messaggio” per donne ed uomini di buona volontà?) hanno un timbro ed un senso quando vengono poste all’interno delle chiese e delle comunità dei credenti ed hanno invece tutt’altro suono e segno quando se ne vuole investire l’intera società che è fatta, pluralisticamente, di credenti, di non credenti e di “diversamente credenti” (con una fede diversa, cioè, da quella cristiana).
Perché non è male, dopotutto, richiamare a questo punto la prima parte della proposizione di Quinzio, precedentemente omessa, che Affinati riprende: “Può darsi che abbia ragione Bonhoeffer a credere che questo è il momento di tacere Dio, dopo averne parlato troppo per secoli” (8).
Per ricordare, cioè, che viviamo in tempi in cui l’istanza (genuinamente bonhoefferiana, ma non solo) dell’affermazione inequivoca del principio di laicità, in parallelo con la ricerca di una testimonianza di fede (da parte dei credenti) che sia fondata sulla purezza e sulla radicalità del messaggio evangelico, è tuttora non solo di stringente, e talora scottante, attualità, ma anche di incerta e problematica realizzabilità.
Un mondo “non religioso”?
Non è semplice, certamente, leggere i segni controversi di un mondo in rapido e sconvolgente movimento. Un mondo che, per certi versi, è naturaliter “non religioso” (come sostiene Jacopozzi); ma lo è, spesso, con modalità assai diverse (“ateismo pratico”, volgarità di costumi, consumismo) da quelle dell’ “età adulta” preconizzata da Bonhoeffer ed anche da una parte dello stesso umanesimo ateistico del Novecento. Un mondo attraversato peraltro da sorprendenti quanto imprevedibili sbalzi e ciclici ripensamenti in alcuni dei suoi, poco leggibili, orientamenti di fondo; è quanto dicevamo all’inizio parlando di “disincanto” e di “reincanto” o di “rinascita del religioso” come fasi successive (o come elementi problematicamente compresenti e, finanche, intersecati?) della nostra epoca.
Un mondo, ancora, come altre volte abbiamo notato, profondamente asimmetrico: secolarizzato e, per certi versi, “post-cristiano” (anche “post-religioso”?) in Occidente, attraversato da forti pulsioni religiose ed identitarie, anche con forti ed estreme connotazioni fondamentalistiche, nelle variegate e tormentate porzioni e moltitudini dell’umanità del “non Occidente”. Un mondo, infine, o anzitutto, che si trova davanti a frontiere nuove, esaltanti e sconvolgenti, sulle questioni di fondo del suo stesso esistere: nel rapporto scienza-tecnica- frontiere (e modalità) della vita (e della morte). Le biotecnologie, la genetica, la possibilità della clonazione della vita, le possibili modificazioni genetiche degli organismi viventi e delle stesse forme di vita aprono, in questo senso, spazi inediti e schiudono inquietanti interrogativi alla riflessione sulla dimensione e sui compiti della bioetica nel nostro tempo.
Siamo, dunque, in presenza di un panorama complessivo e di fronte all’emersione pressante di interrogativi che ai tempi di Bonhoeffer non erano, nemmeno lontanamente, immaginabili.
Il nostro mondo, prima ancora che “maggiorenne” come il carcerato di Tegel, per molti aspetti a ragione, intravedeva ed auspicava, è contraddittorio( inquietamente attraversato com’è da bagliori di speranza e da pericolose regressioni) e “spaventato” dalle sue stesse convulsioni. E’ sofferente.
Non è facile leggere la sofferenza della nostra umanità, “interdipendente” e planetaria. Sempre più unita e sempre più divisa.
La “segnaletica” bonhoefferiana
Sarebbe illusorio, in questo senso (come si presumeva qualche decennio fa, in tempi di crisi, ma anche di apparente delineazione di un credibile percorso alternativo, della nostra modernità avanzata), cercare ricette e punti sicuri di riferimento nell’elaborazione di Dietrich Bonhoeffer.
Si tratterebbe, tra l’altro, di un’operazione assai poco “bonhoefferiana”.
Ma, certo, rimane il fatto che il pensiero del martire di Flossenburg ha indicato una strada. Una strada che va, con apertura al nuovo, percorsa in maniera, per l’appunto, “adulta”, autonoma e consapevole. Non è semplice discernere i segni dei tempi. Ma la bussola e la “segnaletica” bonhoefferiana possono, questo sì, esserci ancora di utilissimo riferimento.
Impegno consapevole nella storia e nel cammino comune con gli altri. Riaffermazione, per i credenti, di una fede “non religiosa” e aperta al confronto con chi fede non ha (emblematico e toccante, in questo senso, è l’episodio del Bonhoeffer prigioniero, e vicino alla fine, che, prima di un momento di preghiera collettiva con altri credenti chiede se questo disturbi la sensibilità dell’unico non credente presente). Difesa rigorosa del principio e della pratica della laicità. Sono punti, questi, che ancora oggi, devono forse essere rimodulati e ridefiniti in un contesto in rapido ed imprevedibile mutamento, ma che conservano intatta la loro fecondità e validità.
Bonhoeffer ha indicato un orizzonte, fatto intravedere un terreno di impegno, lanciato una sfida che ancora ci parla e ci interpella. In questo ha ragione (nel suo contributo su L’ultimo Bonhoeffer) Lodovico Grassi a dire che il pensiero di Bonhoeffer si declina al futuro (in modi che sta a noi intendere e “tradurre” con un linguaggio che sia all’altezza delle nuove sfide). E non ha torto Andrea Bigelli a ricordarci che i termini e le “categorie” bonhoefferiane si prestano, ancor oggi, ad esser letti come un alfabeto della speranza. I contributi che “Testimonianze” raccoglie in questo volume possono, ci auguriamo, essere d’ausilio a saperne intendere il senso e le più significative risonanze.
Ernesto Balducci, La Terra del tramonto, ECP, S. Domenico di Fiesole 1992. p.131.
V. in prop. il dibattito e gli interventi sul n. 429 di “Testimonianze”, con la sezione monotematica dedicata a L’ipotesi Dio all’alba del nuovo millennio, con particolare riferimento agli interventi di Fabio Dei (Sul reincanto del mondo), di Andrea Bigalli (L’ombra di Dio), di Severino Saccardi (Un’immagine che ci segue).
Un teologo contro Hitler, come è noto, è il titolo di un originale libro (una sorta di avventura dello spirito alla ricerca del senso odierno del messaggio di Bonhoeffer ) di Eraldo Affinati (ed. Mondadori, Milano 2002).
Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1996, p. 307.
Significativo è, tra le tante segnalazioni che sarebbero possibili, il bel libro di Anna Innocenti Periccioli che ricostruisce I giorni belli e difficili (ed. Jaca Book- Circolo Il GrandeVetro, Milano 2001) di un autodidatta come l’antifascista amiatino, comunista “bordighista”, Otello Terzani.
Eraldo Affinati, cit., p. 142.
V. in prop. Jurgen Habermas, Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, ed. Marsilio, Venezia 2005
Eraldo Affinati, cit., p.142 |