Sciascia, il PCI e una lezione.
"Corriere Fiorentino", 19 gennaio
C’era una volta il Pci. Un aspetto significativo, e controverso, della cui storia fu il rapporto fra partito ed intellettuali. “Compagni di viaggio, talora, di grande levatura. Come Leonardo Sciascia. Del rapporto fra “Leonardo Sciascia e i comunisti” (come si intitola un recente libro di Emanuele Macaluso) chi scrive ha avuto modo di discutere Lunedì scorso con Achille Occhetto, Lino Jannuzzi e lo stesso Macaluso. L’iniziativa si inseriva in una serie di incontri che, a Firenze, l’ Associazione “Amici di Sciascia” già due anni fa aveva iniziato ad organizzare in coincidenza con il ventesimo anniversario della scomparsa dello scrittore siciliano. Avvenuta nel 1989. Anno in cui, per singolare coincidenza, anche il Pci si avvia a scomparire.
E’ con una sorta di profetica metafora che Sciascia, in una delle sue allusive storie di indagini e delitti, scritta negli ultimi tempi della sua vita (“Il cavaliere e la morte”), fa riferimento all’insidiosa attività della Società dei “figli dell’Ottantanove”. Finiscono insieme la vicenda terrena di Leonardo Sciascia ed il percorso di un partito con cui essa si era intrecciata. Del Pci l’autore de “Il giorno della civetta” fu costante compagno di viaggio. Ma, come Macaluso ricorda, il viaggio fu tutt’altro che tranquillo e l’(autorevole) interlocutore tutt’altro che docile. Sciascia fu protagonista in prima persona delle battaglie politico-elettorali del Pci negli anni settanta, così egli scriveva, in nome “della (…) effettuale libertà di quello che nelle antiche municipalità si usava chiamare il ‘buon governo’ “. Ma il rapporto si sarebbe presto incrinato, per diventare assai aspro in occasione delle polemiche sul “caso Moro” e della scelta di Sciascia per i radicali.
Era uomo intransigente e libero, Leonardo Sciascia. Da quel che trasmettono la sua storia ed i suoi libri c’è qualcosa che, in taluni punti, sembra singolarmente avvicinarlo ad una personalità da lui assai diversa, quanto ad origine ed identità culturale, come Ernesto Balducci. Provenienti entrambi da un ambiente radicato nella cultura del lavoro (quello, rispettivamente, degli zolfatari e dei minatori amiatini), legati tutti e due all’insegnamento (l’uno era stato maestro di scuola, l’altro scolopio) e tutti e due, ecco il punto, segnati da una forte laicità. Sia il cristiano Balducci, sia l’“illuminista Sciascia”. Il quale, peraltro, viveva la sua vicinanza alla sinistra quasi come una sorta di eretica scelta cristiana, come André Gide.
Sono storie e percorsi ormai lontani. Che appartengono ad un mondo (il cui impianto ideologico non è da rimpiangere) che non c’è più. Ma che, pure, ci consegna un’eredità su cui tornare a meditare. Contro la “doppiezza” in politica scriveva, ad es., Sciascia: “(…) bisogna assolutamente evitare (…) il gioco della ‘doppia verità’. Le cose non sono buone quando le facciamo noi e cattive quando le fanno gli altri. Sono o sempre buone o sempre cattive”.
In un tempo in cui un rapporto positivo fra le dimensioni dell’etica e della cultura e il mondo della politica si fa sempre più problematico, fanno riflettere quelle parole di un appassionato eppur libero “compagno di viaggio” di un partito che non c’è più. |