Intervento in occasione del conferimento del Gonfalone d'argento ad Akbar Ganji
Presidente Nencini, presidente Martini, colleghe e colleghi consiglieri, amici iraniani, signore e signori, è un onore, una responsabilità e anche un’emozione molto grande presentare Akbar Ganji.
Akbar Ganji: cittadino del mondo e cittadino di Firenze. Come queste due dimensioni e questi due concetti siano- o dovrebbero essere- intimamente legati ce l’ha spiegato lui stesso, ieri, in Palazzo Vecchio.
E’ un’emozione grande presentare Akbar Ganji. Perché per lui siamo stati , in tanti, molto preoccupati. Ricordo lo scorso Novembre, quando, in questa stessa sala, abbiamo ricevuto la delegazione dei democratici iraniani che avevano appena ritirato, per lui, il premio “ISF-Città di Siena”. Chi vi parla, insieme al presidente Nencini, al portavoce dell’opposizione Alessandro Antichi (con il quale sto registrando una preoccupante e crescente convergenza su tematiche di questa natura), alla presidente della Commissione cultura, Ambra Giorgi (cioè alle persone che in Consiglio più attivamente si sono occupate del “caso Ganji), ha avuto modo di ascoltare un drammatico appello video della moglie di Akbar. La sig.ra Ganji parlava delle drammatiche condizioni del marito. Chiuso- come ha scritto allora efficacemente su “Testimonianze” Stefano Marcelli di Information Safety and Freedom- nella “casa dei fantasmi”,il famigerato carcere di Evin. Ha scritto, Stefano,degli occhi di Akbar “sempre più grandi”, mentre sosteneva un drammatico e radicale sciopero della fame. Con la sua drammatica testimonianza, che metteva a rischio la sua stessa vita, Ganji difendeva non solo i suoi diritti, ma anche quelli di tutti gli altri prigionieri di coscienza. E ci impartiva- ci impartisce- una grande lezione. Ricordandoci implicitamente che bisogna sempre avere una visiona ampia, globale, planetaria dei problemi.
Alcuni di noi, anche chi vi parla, ritengo giustamente, si occupano dei problemi delle carceri nel nostro Paese. E’ molto importante. Ma bisogna anche pensare- come denuncia spesso Amnety International- a cosa sono, ad es., le carceri turche, o appunto iraniane, o thailandesi o sudanesi.
I diritti sono indivisibili.
E’stata un’emozione ed è stato un onore anche sentire la lezione magistrale che Akbar Ganji ha tenuto ieri pomeriggio in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria. Si è riferito all’umanesimo fiorentino ed al pensiero di Machiavelli come base di un repubblicanesimo fondato sul rispetto della legge. Ha parlato di Gramsci e della sua concezione del cittadino del mondo.
Ha rimandato implicitamente a Kant ed al suo ideale di un universo di stati democratici che, come tali, non si fanno più guerra fra loro.
E’ un onore ed è un’occasione recepire la sua testimonianza ed avere l’occasione di riflettere sulla sua impostazione e sul suo percorso culturale ed esistenziale. E’ un percorso paradigmatico. Che è approdato ad alcune nette convinzioni. A quella, innanzitutto, dell’universalità dei diritti umani e della possibile combinazione dei diritti umani universali con la relatività e la diversità delle culture.
Molto spesso sono i dittatori che si trincerano dietro la specificità delle culture per respingere il supposto carattere omologante della cultura universale dei diritti. Akbar Ganji è un esempio interessantissimo della possibilità di fare un uso non eurocentrico della migliore cultura democratica europea ed occidentale, quella collegata ai nomi di Kant, di Hannah Arendt, di Karl Popper.
Il pensiero ed il percorso di Ganji sono una conferma della possibilità di combinare fecondamene identità islamica e cultura della democrazia.
Chi è Ganji? E’, intanto, un uomo ancora molto giovane: è nato da una famiglia di forti principi religiosi, nel 1959. Ha fatto studi di tipo sociologico e filosofico. Da giovane, Akbar ha aderito alla rivoluzione Khomeinista, sperando che ne derivasse una spinta rigeneratrice per l’Iran,. Più tardi è diventato uno dei più implacabili critici della politica autoritaria del regime teocratico. Ha appoggiato, da posizioni di responsabilità la “primavera” (poggiante, purtroppo, su basi effimere) di Khatami. Ha pagato per il suo giornalismo di denuncia e per i suoi scritti di critica della politica della nomenklatura iraniana. Il suo è un percorso, in qualche modo, tipico nel suo affidarsi alle promesse di una rivoluzione per opporvisi, poi, quando diviene evidente che essa divora i suoi figli e, con essi, la libertà.
Fa eccezione, dice Ganji con Hannah Arendt, la rivoluzione americana che, a suo tempo, ha perseguito non il potere ma la libertà.
Percorsi analoghi a quello di Akbar Ganji si sono verificati nelle esperienze dei grandi e storici “dissidenti” ( o dei sostenitori del “socialismo dal volto umano”) dell’ Est europeo ai tempi del “comunismo reale”. Così è stato per Andrei Sacharov, per Jacek Kuron, per Imre Nagy e Alexander Dubcek, per non fare che alcuni nomi di coloro che, dopo aver aderito alle promesse di rinnovamento totale di un’ideologia se ne sono distaccati e si sono ribellati, in nome della dignità umana, quando ne hanno verificato le drammatiche conseguenze e le distorsioni prodotte nella realtà.
Ora Ganji, dopo la liberazione dal carcere ottenuta (dopo una forte mobilitazione internazionale) lo scorso 18 Marzo, sta riscuotendo importanti riconoscimenti. E’ reduce da Mosca, dove gli è stata consegnato il premio della “penna d’oro per la libertà”.
Adesso Ganji è con noi, nuovo cittadino di Firenze, per ricevere meritatamente l’alta onorificenza del “Gonfalone d’argento”.
Ieri, quando me l’hanno presentato, ho cercato le parole adatte per salutarlo. Come se fosse semplice trovare frasi e parole adeguate mentre stringi la mano ad un pezzo di storia che ti si materializza davanti. E che Ganji sia già un pezzo di storia non vi è dubbio: ha già scritto, con la sua testimonianza, pagine importanti della storia del suo Paese e non solo del suo Paese e darà certamente un contributo fondamentale all’auspicabile futuro di un rinato Iran democratico dopo l’avvento del quale, e dopo che ne sarà certamente divenuto uno degli esponenti più rilevanti, speriamo che si ricordi dei suoi amici fiorentini e toscani che continueranno a seguirlo affettuosamente da lontano.
Dicevo delle parole che cercavo di trovare mentre stringevo “la mano alla storia”. Ho detto qualcosa sull’universalità di Firenze come città della cultura della pace e dei diritti umani che era felice di accoglierlo e di ospitarlo. Akbar mi ha guardato in modo educatamente sornione. Poi ha risposto in modo arguto ed ironico (con un gusto dell’ironia che è tipica degli iraniani che sono non solo un grande popolo, erede di una grande e raffinata civiltà, ma che hanno nel loro tratto umano, che ben si ritrova stampato negli occhi penetranti e mobili e nel sorriso allegro ed enigmatico di Ganji, anche una spiccata tendenza all’umorismo) di lasciar perdere. Per quelle frasi e quei concetti ci sarebbe stato tempo e spazio nelle cerimonie ufficiali.
Ecco, adesso siamo all’interno di una cerimonia (che vuol essere, al di là dell’ufficialità dei toni, un momento improntato a profonda sincerità e autenticità nella comunicazione) per il conferimento del Gonfalone d’argento e ritengo dunque di poter riprendere il discorso e di riproporre i concetti che ieri ho provato un po’ goffamente ad esternare al momento del nostro primo incontro.
E mi sento, dunque, di dire con partecipazione e forte convinzione, caro Akbar, concittadino di Firenze e della Toscana, caro amico e compagno di lotta per la libertà, la pace ed i diritti, che non sei tu a dover ringraziare noi. Siamo noi, cittadini di Firenze e della Toscana, che ti dobbiamo ringraziare per averci indotto, nel confronto con la tua testimonianza, il tuo sacrificio e la tua lezione, a ricollegarci alla nostra migliore tradizione. Quella tradizione che ci deriva dall’insegnamento di grandi personalità come il sindaco Giorgio La Pira, padre Ernesto Balducci, Enzo Enriques Agnolotti, impegnati in maniera ineguagliabile nel qualificare la nostra città e la nostra terra nell’impegno a difesa della pace e dei diritti umani e nel tener la porta aperta ai rifugiati, ai deboli ed ai perseguitati.
Mi piace ricordare che quando, nei decenni trascorsi, nella nostra città c’erano studenti iraniani che cercavano solidarietà per il loro Paese (un Paese grande quanto tormentato da svariate e successive forme di oppressione) hanno sempre trovato presso di loro consiglio, sollecitudine, sostegno umano e politico. E’ quanto ricordava, con commozione e gratitudine, l’amico intellettuale iraniano Bijan Zarmandili nell’ormai lontano 1992 alla prima importante commemorazione un mese dopo la scomparsa di Ernesto Balducci.
La Pira, Balducci, Enrques Agnoletti ci hanno insegnato a conservare e a coltivare la vocazione di Firenze come città dell’ umanesimo (come anche tu ricordavi ieri) e della libertà di coscienza, della cultura della pace e dei diritti ed a a mantenere alla Toscana il suo carattere di aperta, libera e solidale “terra del mondo”. Tu ci hai dato l’occasione di vivificare , di renderci di nuovo presenti, di sostanziare quest’immagine ed i valori di fondo a cui la nostra città e la nostra terra devono continuare ad essere intimamente e profondamente legate.
Grazie a te, Akbar Ganji, per quel che hai fatto e che continuerai a fare, per il tuo Paese, ma anche per tutti noi.
Severino Saccardi
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