A Pianosa
Europa, 12 settembre 2008
A Pianosa, in una delle visite di chi scrive e del collega Enzo Brogi alle realtà carcerarie della nostra Regione, siamo stati a fine Luglio. Ad accompagnarci gli agenti di custodia di Porto Azzurro, che si occupano di quel che resta dell’ ex penitenziario dell’incantevole isola dell’Arcipelago Toscano. Su quella visita viene di tornare a riflettere adesso che il dibattito sul “tema carcere” si riaccende anche a livello nazionale. In quel momento non erano ancora emersi i propositi politici oggi annunciati. Che non sembrano misurarsi con nodi cruciali come l’abbreviazione della carcerazione preventiva. O come l’individuazione di sanzioni alternative al carcere per i reati minori. E che si basano, invece, su ipotesi discutibili come il controverso “braccialetto” elettronico. O sul problematico rimpatrio dei detenuti stranieri nei paesi di provenienza ( difficili, talora, anche da individuare).
Certo che già allora con il cortese Commissario che ci faceva da guida ragionavamo dei problemi che affliggono nuovamente anche gli istituti penali della Toscana. Dopo l’alleggerimento, rispetto alle precedenti condizioni, che l’indulto ha comunque comportato, le realtà detentive del nostro territorio presentano paradossali condizioni di disomogeneità. Ci sono carceri che si vanno nuovamente riempiendo (v. Sollicciano) ed istituti semivuoti . E c’è il problema della composizione della popolazione carceraria: con moti detenuti “extracomunitari” . A Porto Azzurro, ci spiegavano, sarebbero di vitale importanza corsi di tipo linguistico e di “mediazione culturale” (cui la Regione potrebbe contribuire) per il personale di custodia. Per facilitare il dialogo fra agenti e reclusi “stranieri”.
Dicevamo di Pianosa. La visita, bellezze naturalistiche a parte, è stata istruttiva. Ha posto in evidenza un’esperienza limitata, ma significativa. Ed ha, nello stesso tempo, rivelato incongruenze che sono tipiche, al di là della questione carceraria, di molti aspetti del “sistema Italia”. Partiamo dal positivo. A Pianosa (che è stato, come è noto, un penitenziario di massima sicurezza) rimangono pochi detenuti (a fine pena) e pochi agenti. I detenuti vivono sostanzialmente liberi (salvo il rientro agli alloggi la sera) e lavorano alla Cooperativa di ristorazione “S. Giacomo” o al restauro degli edifici dell’isola. Il personale di custodia ha una marcata consapevolezza della situazione in qualche modo “esemplare” di cui è garante. Il negativo è dato dall’incertissimo destino di strutture notevoli (come l’ex caserma) totalmente risistemate e lasciate, poi, inutilizzate. Le istituzioni che dovrebbero decidere in merito se ne disinteressano.
Con il risultato che edifici che si potrebbero intelligentemente utilizzare per nuove finalità (centri studi e convegni, turismo responsabile…) finiranno per deteriorarsi. O per essere consegnati, (una volta dimessa la realtà semicarceraria, che è singolare garanzia dell’integrità di Pianosa), alla speculazione privata.
Il “limbo” di Pianosa è molto più della testimonianza di un passato di durezza, o dell’attuale sperimentazione di un diverso modo di gestire la condizione detentiva. E’ una piccola realtà, che, nella contraddittorietà del suo presente, pone interrogativi che vanno oltre il “pianeta carcere”. Una metafora, quasi, della possibile deriva di un Paese che ha bisogno di un indirizzo e di un orizzonte nuovo.
Severino Saccardi
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